ITALIANI BRAVA GENTE ?
MITO DA SFATARE ?
ECCIDI COMPIUTI DAGLI ITALIANI IN LIBIA
(terza parte)
MITO DA SFATARE ?
ECCIDI COMPIUTI DAGLI ITALIANI IN LIBIA
(terza parte)
Il 18 ottobre 1912, con la stipulazione del Trattato di Losanna, l'Impero Ottomano cedeva all'Italia (a titolo di "protettorato") la Tripolitania e la Cirenaica, mantenendo una sovranità religiosa sulle popolazioni musulmane dei luoghi. Alla fine del conflitto nel 1912, alcune stime indicarono un totale di 10.000 vittime tra turchi e libici a causa di esecuzioni e rappresaglie italiane, dovute alla resistenza turco-libica che sarebbe durata almeno fino al 1932.
Il 18 dicembre 1913, il deputato socialista Filippo Turati, denunciava l'uso della forca e della condanna a morte contro la popolazione libica, in esecuzione della legge e delle usanze locali.
La repressione italiana della resistenza turco-libica in Tripolitania ed in Cirenaica avvenne tramite i tribunali militari speciali, per cui i processi avvenivano spesso all'aperto ed in pubblico, attraverso cui se ritenuti colpevoli, gli imputati venivano il più delle volte condannati a morte e le sentenze immediatamente eseguite. Le accuse più diffuse erano quelle relative alla collaborazione offerta ai ribelli.
Il 24 maggio 1915, in base a un rapporto dell'8 ottobre successivo, indirizzato dal consigliere politico di Misurata Alessandro Pavoni al direttore per gli affari politici del Ministero delle colonie Giacomo Agnesa, riferisce di un barbaro massacro ordinato da un ufficiale dei carabinieri. Da quanto viene riferito a Pavoni, i militari italiani riferirono di alcuni spari partiti dall'edificio, forse per mano di ribelli, mentre un testimone, che all'epoca aveva nove anni, riferirà anni dopo che a sparare erano stati gli italiani dopo essere stati derisi per una recente sconfitta per mano dei senussi. Pavoni scrive che sei soldati italiani scalarono l'edificio fin sul tetto da cui spararono alcuni colpi di fucile nel cortile sopprimendo la ribellione. Poco dopo, il capitano dei carabinieri ordinò che l'edificio, un albergo, venisse incendiato, operazione che fu eseguita dopo la devastazione e la rapina di tutto ciò che potesse essere utile, da parte sia dei militari che dei civili, oltre al proprietario stesso dell'albergo. Il giorno seguente, furono trovate con certezza trentadue cadaveri, quasi tutte bruciate, di cui solo otto uomini adulti. L'inchiesta ministeriale si concluse con il proscioglimento degli accusati. L'evento è ricordato da un piccolo monumento eretto alle spalle del municipio.
Un altro rapporto parla dell'esecuzione di settantacinque libici nei pressi di Suani Ben Aden, a una quarantina di chilometri a sud-est di Tripoli, il 7 luglio 1915 dopo che gli italiani avevano rinvenuto alcuni barilotti ed altri oggetti militari italiani nel dorso di alcuni cammelli appartenenti ai libici stessi. Anche in questo caso l'inchiesta ebbe il medesimo risultato.
Con la fine della prima guerra mondiale, tutti i patti con i senussi furono denunciati; al rifiuto del parlamento locale di rispettare i precedenti accordi firmati il 1921,[non chiaro] il 6 marzo 1923, il governatore della Cirenaica, Luigi Bongiovanni proclamò lo Stato d'assedio, iniziando poi le operazioni per la «riconquista» della Libia.
Cufra, considerata da Graziani "centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico", fu bombardata il 26 agosto e i ribelli inseguiti verso il confine con l'Egitto. Lo stesso Graziani parla di 100 ribelli uccisi, 14 ribelli passati per le armi e 250 fermati tra cui donne e bambini. Dopo una nuova insurrezione, il 20 gennaio 1931 la città è rioccupata dagli italiani; ne seguirono tre giorni di violenze ed atrocità impressionanti che provocarono la morte di circa 180-200 libici e innumerevoli altre vittime tra i sopravvissuti: 17 capi senussiti impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate, 50 fucilazioni, 40 esecuzioni con accette, baionette, sciabole. Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e sodomizzate (ad alcune infisse candele di sego in vagina e nel retto), teste e testicoli mozzati e portati in giro come trofei; torture anche su bambini (3 immersi in calderoni di acqua bollente) e vecchi (ad alcuni estirpati unghie e occhi).
Grande fu l'impressione nel mondo islamico. La "Nation Arabe" scrisse:
« Noi chiediamo ai signori italiani… i quali ora si gloriano di aver catturato cento donne e bambini appartenenti alle poche centinaia di abitanti male armati di Cufra che hanno resistito alla colonna occupante: "Che cosa c'entra tutto ciò con la civiltà?" »
Il giornale di Gerusalemme "Al Jamia el Arabia" pubblicò il 28 aprile 1931, un manifesto in cui si ricordano:
« ...alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo ... senza avere pietà dei bambini, né dei vecchi... »
Il 20 giugno 1930, il governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica, maresciallo Pietro Badoglio, dispose l'evacuazione forzata della popolazione della Cirenaica, per la quale circa centomila persone furono costrette a lasciare tutti i propri beni portando con sé soltanto il bestiame:
« Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica. »
(Pietro Badoglio, 20 giugno 1930)
Mussolini approvò e nei mesi seguenti Graziani procedette a deportare tutta la popolazione del Gebel in campi di concentramento siti tra le pendici del Gebel e la costa. Le ragioni delle deportazioni vengono da taluni ricollegate alla ripopolazione del Gebel da parte di coloni italiani, mentre Rodolfo Graziani le giustificò con la necessità di mettere fine alla ribellione senussita.
Mussolini approvò e nei mesi seguenti Graziani procedette a deportare tutta la popolazione del Gebel in campi di concentramento siti tra le pendici del Gebel e la costa. Le ragioni delle deportazioni vengono da taluni ricollegate alla ripopolazione del Gebel da parte di coloni italiani, mentre Rodolfo Graziani le giustificò con la necessità di mettere fine alla ribellione senussita.
Dal 1930 al 1931 le forze italiane scatenarono un'ondata di terrore sulla popolazione indigena cirenaica; tra il 1930 e il 1931 furono giustiziati 12 000 cirenaici e tutta la popolazione nomade della Cirenaica settentrionale fu deportata in enormi campi di concentramento lungo la costa desertica della Sirte, in condizione di sovraffollamento, sottoalimentazione e mancanza di igiene. Nel giugno 1930, le autorità militari italiane organizzarono la migrazione forzata e deportazione dell'intera popolazione del Gebel al Akhdar, in Cirenaica, e ciò comportò l'espulsione di quasi 100 000 beduini (una piccola parte era riuscita a fuggire in Egitto)[16] - metà della popolazione della Cirenaica - dai loro insediamenti, che furono assegnati a coloni italiani. Queste 100 000 persone, in massima parte donne, bambini e anziani, furono costretti dalle autorità italiane a una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto verso una serie di campi di concentramento circondati di filo spinato costruiti nei pressi di Bengasi. Le persone furono falcidiate dalla sete e dalla fame; gli sciagurati ritardatari che non riuscivano a tenere il passo con la marcia venivano fucilati sul posto dagli italiani. Tra i vari episodi di crudeltà si cita l'abbandono di molti indigeni, tra cui donne e bambini, nel deserto privi di acqua a causa di vari dissidi; altri morti per fustigazioni e fatica. Fonti straniere, non censurate dal governo italiano e mostrate anche nel film Il leone del deserto, mostrano riprese aeree, fotogrammi e immagini dei campi per il concentramento dei deportati, in cui i deportati venivano internati senza alcun'assistenza o sussidio. Le esecuzioni sommarie erano all'ordine del giorno per chi si mostrava ostile o cercava di ribellarsi alla situazione.
La massa dei deportati fu rinchiusa dalle truppe agli ordini di Graziani, in tredici campi di concentramento nella regione centrale della Libia, ove, in base alle cifre ufficiali furono reclusi 90 761 civili. La propaganda del regime fascista dichiarava che i campi erano oasi di moderna civilizzazione gestite in modo igienico ed efficiente - mentre nella realtà i campi avevano condizioni sanitarie precarie avendo una media di 20 000 beduini internati insieme ai propri cammelli o altri animali, ammassati in un'area di un chilometro quadrato. I campi avevano solo rudimentali servizi medici: per i 33 000 reclusi nei campi di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c'era un solo medico. Il tifo e altre malattie si diffusero rapidamente nei campi, anche perché i deportati erano fisicamente indeboliti dalle insufficienti razioni alimentari e dal lavoro forzato. La loro unica ricchezza, il bestiame, fu radicalmente distrutto; perirono il 90-95% degli ovini e l'80% dei cavalli e dei cammelli della Cirenaica. Quando i campi vennero chiusi nel settembre 1933, erano morti 40 000 persone.
La popolazione della Cirenaica, che in base al censimento turco del 1911 contava 198 300 abitanti, scese a 142 000 secondo i dati del censimento del 21 aprile 1931. Il saldo negativo del 28,6% in vent'anni, secondo alcuni, sarebbe correlabile con un genocidio. Il dato non tiene conto però delle deportazioni del 1929, che spostarono diverse decine di migliaia di persone verso le regioni centrali.
Il quadro che emerge dalle incomplete cifre dei censimenti delle altre regioni è analogo: il censimento turco del 1911 – infatti – enumerava 523 000 abitanti nella sola Tripolitania; la stima italiana del 1921 faceva ascendere a 570 000 la popolazione araba della Tripolitania e del Fezzan che, il censimento del 1931 calcolava in soli 512 900 arabi. Ciò significherebbe che, al lordo degli spostamenti suddetti, in soli dieci anni, anche la popolazione delle altre due province era scesa di circa il 10%.
Nonostante la censura imposta dal regime, i crimini commessi dagli italiani in Libia erano ben noti, e la stampa, soprattutto araba, non mancava di commentarli con articoli particolarmente severi. Ma anche la stampa europea esprimeva forti denunce. Si veda, per esempio, il lead di un articolo apparso il 26 settembre 1931 sul quotidiano di Sarajevo, «Jugoslavenski List»:
« Già da tre anni il generale Graziani, con inaudita ferocia, distrugge la popolazione araba per far posto ai coloni italiani. Sebbene anche altri popoli non abbiano operato coi guanti contro i ribelli nelle loro colonie, la colonizzazione italiana ha battuto un record sanguinoso.
g. m.
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