MICHELANGELO BUONARROTI-TESTA DI LEDA-CASA BUONARROTI FIRENZE
Michelangelo Buonarroti
Studi per la testa della Leda
1530 circa
matita rossa,
354 x 269 mm
Studi per la testa della Leda
1530 circa
matita rossa,
354 x 269 mm
Il disegno è unanimemente riconosciuto come uno dei pezzi più belli e importanti della produzione grafica di Michelangelo. La testa china, ritratta di profilo, riporta alla posizione della Notte della Sagrestia Nuova, e ha una splendida sicurezza di segno resa vibrante dalla evidente ripresa dal vero: per primo Wilde, seguito dalla maggior parte degli studiosi, suppose che il modello fosse Antonio Mini, allievo dell’artista. Sarà inutile ricordare la frequenza in quei tempi di modelli maschili per immagini di donna; è invece da sottolineare come lo schizzo, in basso a sinistra, del particolare del naso e dell’occhio, con lunghe ciglia femminili, ingentilisca i tratti già assai sfumati e pensosi del profilo.
Concorde è il riferimento del foglio alla Leda, il dipinto perduto la cui vicenda tocca momenti storici della biografia di Michelangelo, intrecciandosi con la complicata storia dei rapporti tra Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, e il papa Giulio II. Colpito da scomunica nell’estate del 1510 per aver scelto, come avversario di Venezia e alleato di Luigi XII re di Francia, il campo opposto a quello del pontefice, Alfonso soltanto due anni dopo, in seguito all’inattesa sconfitta dei francesi in Italia, si decise a sottomettersi e si recò a Roma, dove ottenne l’assoluzione papale. Tre giorni dopo questo evento, l’11 luglio, lo stesso Giulio II gli permise di salire sulle impalcature della Cappella Sistina, la cui volta era stata ormai quasi del tutto affrescata da Michelangelo.
Il lungo colloquio con il duca, estasiato dall’ammirazione, terminò con la promessa da parte dell’artista di dipingere un quadro per lui.
Diciassette anni dopo Michelangelo, impegnato nella difesa di Firenze assediata dalle forze pontificie, fu a Ferrara, ospite di Alfonso, per studiare i suoi famosi sistemi di fortificazione; e si lasciò finalmente convincere a esaudirne l’antico desiderio. Forse fu proprio la necessità di rimanere nascosto dopo la caduta di Firenze, nell’agosto del 1530, a permettergli di attendere all’opera. Verso la metà di ottobre dello stesso anno, il “quadrone da sala” era finito; ma non giunse mai a Ferrara per l’insipienza del messo inviato dal duca a ritirarlo, che definì il dipinto, al cospetto dell’autore, “poca cosa”. Michelangelo si adirò molto per questo, e, come racconta il Condivi, “licenziato il ducal messo, di lì a poco tempo donò il quadro a un suo garzone”. Questo garzone era Antonio Mini, che insieme alla Leda sembra aver ricevuto da Michelangelo anche alcuni disegni e il cartone preparatorio del dipinto. Si è anche supposto, con qualche ragione, che il dipinto fosse consegnato al Mini dall’autore non in dono ma perché lo vendesse; sta di fatto che il Mini si trovava in Francia tra il 1531 e il 1532, e che la Leda fu sicuramente nelle sue mani. Dopo la sua morte (1533) si hanno ancora notizie contrastanti di contese intorno al dipinto. Secondo il Vasari, esso giunse nelle collezioni di Francesco I a Fontainebleu. La vicenda assai complessa della Leda è stata recentemente ripercorsa e in buona misura chiarita da Janet Cox-Rearick. La studiosa dimostra, documenti alla mano, che il dipinto giunse senza dubbio a Fontainebleau, ma che di esso non si trova traccia negli inventari reali a partire dal 1683, mentre in un inventario del 1691 la voce relativa al cartone con il nostro soggetto, allora ritenuto di Michelangelo e oggi alla Royal Academy di Londra, recita: “La regina madre [Anna d’Austria] bruciò il dipinto. Da bruciare”. Secondo un’altra fonte, citata dalla stessa Cox-Rearick e datata 1699, “questa Leda era rappresentata in uno stato così vivido e lascivo di amore appassionato che M. des Noyers, ministro di stato sotto Luigi XIII, la fece bruciare”.
Al di là del moralistico rogo, la straordinaria invenzione michelangiolesca, di cui il nostro disegno è luminoso presagio, è giunta fino a noi attraverso numerose copie e derivazione nelle tecniche più diverse, tra le quali il famoso dipinto della National Gallery di Londra, attribuito al Rosso, e anche una tavoletta di fine Cinquecento attualmente esposta in Casa Buonarroti.
Concorde è il riferimento del foglio alla Leda, il dipinto perduto la cui vicenda tocca momenti storici della biografia di Michelangelo, intrecciandosi con la complicata storia dei rapporti tra Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, e il papa Giulio II. Colpito da scomunica nell’estate del 1510 per aver scelto, come avversario di Venezia e alleato di Luigi XII re di Francia, il campo opposto a quello del pontefice, Alfonso soltanto due anni dopo, in seguito all’inattesa sconfitta dei francesi in Italia, si decise a sottomettersi e si recò a Roma, dove ottenne l’assoluzione papale. Tre giorni dopo questo evento, l’11 luglio, lo stesso Giulio II gli permise di salire sulle impalcature della Cappella Sistina, la cui volta era stata ormai quasi del tutto affrescata da Michelangelo.
Il lungo colloquio con il duca, estasiato dall’ammirazione, terminò con la promessa da parte dell’artista di dipingere un quadro per lui.
Diciassette anni dopo Michelangelo, impegnato nella difesa di Firenze assediata dalle forze pontificie, fu a Ferrara, ospite di Alfonso, per studiare i suoi famosi sistemi di fortificazione; e si lasciò finalmente convincere a esaudirne l’antico desiderio. Forse fu proprio la necessità di rimanere nascosto dopo la caduta di Firenze, nell’agosto del 1530, a permettergli di attendere all’opera. Verso la metà di ottobre dello stesso anno, il “quadrone da sala” era finito; ma non giunse mai a Ferrara per l’insipienza del messo inviato dal duca a ritirarlo, che definì il dipinto, al cospetto dell’autore, “poca cosa”. Michelangelo si adirò molto per questo, e, come racconta il Condivi, “licenziato il ducal messo, di lì a poco tempo donò il quadro a un suo garzone”. Questo garzone era Antonio Mini, che insieme alla Leda sembra aver ricevuto da Michelangelo anche alcuni disegni e il cartone preparatorio del dipinto. Si è anche supposto, con qualche ragione, che il dipinto fosse consegnato al Mini dall’autore non in dono ma perché lo vendesse; sta di fatto che il Mini si trovava in Francia tra il 1531 e il 1532, e che la Leda fu sicuramente nelle sue mani. Dopo la sua morte (1533) si hanno ancora notizie contrastanti di contese intorno al dipinto. Secondo il Vasari, esso giunse nelle collezioni di Francesco I a Fontainebleu. La vicenda assai complessa della Leda è stata recentemente ripercorsa e in buona misura chiarita da Janet Cox-Rearick. La studiosa dimostra, documenti alla mano, che il dipinto giunse senza dubbio a Fontainebleau, ma che di esso non si trova traccia negli inventari reali a partire dal 1683, mentre in un inventario del 1691 la voce relativa al cartone con il nostro soggetto, allora ritenuto di Michelangelo e oggi alla Royal Academy di Londra, recita: “La regina madre [Anna d’Austria] bruciò il dipinto. Da bruciare”. Secondo un’altra fonte, citata dalla stessa Cox-Rearick e datata 1699, “questa Leda era rappresentata in uno stato così vivido e lascivo di amore appassionato che M. des Noyers, ministro di stato sotto Luigi XIII, la fece bruciare”.
Al di là del moralistico rogo, la straordinaria invenzione michelangiolesca, di cui il nostro disegno è luminoso presagio, è giunta fino a noi attraverso numerose copie e derivazione nelle tecniche più diverse, tra le quali il famoso dipinto della National Gallery di Londra, attribuito al Rosso, e anche una tavoletta di fine Cinquecento attualmente esposta in Casa Buonarroti.
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