Intervista a N. Radhakrishnan
Il mondo ha bisogno di pace
Tra i principali conoscitori e interpreti della filosofia gandhiana, è presidente onorario della Soka Gakkai indiana
Ha scritto e curato più di trenta libri, tra i quali: Gandhi in the Global Village (Gandhi nel villaggio globale); Daisaku Ikeda in Pursuit of a New Humanism (Daisaku Ikeda e lo scopo di un nuovo umanesimo); Ikeda Sensei, The Triumph of Mentor-Disciple Spirit (Ikeda Sensei, il trionfo dello spirito di maestro-discepolo); The Quest for Tolerance and Survival (La richiesta per la tolleranza e la sopravvivenza); A Nation in Transition: India at 50 (Il cinquantenario dell’India: una nazione in transizione); Gandhi’s Challenge to Religious Intolerance (La sfida di Gandhi all’intolleranza religiosa); Gandhi, Youth and Nonviolence (Gandhi, i giovani e la nonviolenza); Shanti Sena; Training in Nonviolence – A Trainer’s Manual (Allenarsi alla nonviolenza – un manuale per l’istruttore); Khan Abdul Ghaffar Khan: Messenger of Harmony (Abdul Ghaffar Khan messaggero di armonia); Sparks of Nonviolence (Scintille di nonviolenza); G. Ramachandran: A Study (G. Ramachandran, uno studio);Complementarity of Gandhi and Nerhu (Complementarietà di Gandhi e Nerhu); Multiple Streams of Peace Movements (Correnti multiple di movimenti per la pace). Dirige anche tre giornali: Journal of peace and Gandhian Studies, Journal of Gandhi Smriti e Nonviolent Revolution.
Ha tenuto e organizzato corsi su Gandhi, i movimenti per la pace, gli eserciti pacifici (Shanti Sena) e i diritti umani in più di trenta università del mondo. Oltre ad aver rappresentato l’India in diversi forum internazionali, è stato a capo di una delegazione di studiosi e artisti indiani presso l’UNESCO in occasione del 125° anniversario della nascita del Mahatma Gandhi.
Attualmente N. Radhakrishan dirige la fondazione Gandhi (Gandhi Smriti) e l’International Centre of Gandhian Studies and Research di Nuova Delhi, con il patrocinio della Gandhi Smriti e Darshan Samiti del governo indiano.
È presidente onorario della Soka Gakkai indiana.
L’infernale traffico di Delhi imbottiglia la vecchia Hindustani Ambassador tra camion, risciò a tre ruote, motociclette sgangherate e limousine tirate a lucido.
Finalmente l’auto imbocca un viale e poi, come un miraggio dopo l’inquinamento e il rumore delle strade, ecco il portone di accesso ai campus della Gandhi Smriti e della Darshan Samiti. Tutti si fermano un attimo, vogliono vedere chi sono i passeggeri, interrompono il lavoro e, con la tipica curiosità indiana, guardano oltre i finestrini: i giardinieri che lavorano per tenere curate le aiuole che circondano i vari edifici; i ragazzi che si occupano della casa museo, il luogo dove Gandhi trascorse gli ultimi giorni della sua vita; i volontari che partecipano alle tantissime attività della Fondazione. La Gandhi Smriti ha sede nella Old Birla House al numero 5 di Tees January Marg, ed è il luogo dove “l’epica esistenza”, come avvertono le guide, del Mahatma Gandhi terminò il 30 gennaio del 1948, che dal 9 settembre del 1947 era qui ospitato. La casa custodisce moltissimi oggetti che ricordano quegli ultimi 144 giorni. Appartenuta all’industriale B. D. Birla, amico di Gandhi, fu acquistata dal governo indiano nel 1971 e venne convertita in National Memorial of the Father of the Nation con l’apertura al pubblico dal 15 agosto 1973. È dunque una sorta di museo, che può essere quotidianamente visitato e dove si può assistere alle proiezioni di film su Gandhi e sul movimento per la libertà, si possono visitare le stanze del Mahatma ma anche mostre fotografiche. Qui si svolgono seminari e simposi e qui si trova anche una piccola ma ricchissima biblioteca che custodisce testi introvabili. Poco oltre la Gandhi Smriti si trova l’International Centre of Gandhian Studies and Research, un vero e proprio campus – con sale per conferenze dove vengono tenuti seminari, convegni, workshop, mostre, programmi di scambio, corsi universitari, forum e altro – in grado di ospitare professori e studenti desiderosi di approfondire il pensiero di Gandhi.
La Gandhi Smriti è il luogo dove lavora il Professor N. Radhakrishnan, attivamente impegnato nella propagazione della pace attraverso l’insegnamento di Gandhi. «E il luogo è indubbiamente adatto» spiega con un sorriso il professore. «Qui tutto parla del Mahatma: abbiamo persino voluto mettere una piccola lapide nel giardino del retro, per segnare esattamente il punto in cui Gandhi fu colpito. Delle impronte di piedi mimano i suoi ultimi passi, dalla casa al giardino».
Quali sono le finalità della Gandhi Smriti, la Fondazione Gandhi?
Al primo posto abbiamo l’esigenza di portare avanti e di diffondere un messaggio di armonia, come era nel pensiero del Mahatma e nelle sue azioni, per esempio per risolvere o attenuare le tensioni sociali, o per smorzare o far scomparire la guerra delle caste che nonostante tutto ancora esiste e infiamma il nostro paese.
Le nostre finalità potrebbero essere spiegate da differenti punti di vista: abbiamo innanzitutto attività legate ai bambini, perché sono il futuro e vengono “costruiti” attraverso l’istruzione: quindi, poiché il nostro futuro è creato dall’educazione, stiamo “seminando” per la creazione di una società migliore. Gandhi aveva una visione molto chiara dell’istruzione, che dunque per noi resta importantissima. Il nostro è un complesso educativo multi-funzionale dove si cercano e si sperimentano modalità educative che siano adeguate ai mezzi di comunicazione usati dai bambini. I bambini comunicano attraverso il gioco, e in particolare attraverso la musica, i racconti, la pittura, le marionette, il ballo.
Un altro punto di vista riguarda chi si occupa dei bambini, i genitori e gli insegnanti, che dovrebbero perciò essere persone motivate e consapevoli, dedite alla creazione di valore. Lo riteniamo un fatto fondamentale: la creazione di valore, qualcosa di cui nessuno parla, sta, secondo me, nel riuscire a preservare il valore intrinseco di ogni società, di ogni civiltà. È dare il giusto peso, la giusta importanza alla differenza. Il valore è il carattere di una società; la società in cui viviamo sta perdendo i suoi valori. È divenuta ormai un villaggio globale. Ma in questo villaggio globale c’è il rischio altissimo che si perda l’individualità, la caratteristica di ognuno, sia a livello individuale che collettivo. Le diversità dovrebbero essere sempre mantenute, anzi di più: dovrebbero essere preservate. Dovremmo mirare a una società diversa, pluralistica, perché globalizzazione non deve e non può significare uniformità. Se tutti ci somigliassimo sarebbe un mondo bruttissimo: il fatto che io abbia un colore, che un’altra persona ne abbia un altro, che qualcuno sia basso, qualcun altro magro e un altro ancora grasso è un fatto bello, prezioso. La varietà è bella. Gandhi parlava proprio di questo: di cultura dell’individuo. Eccolo il difficilissimo compito assegnato a genitori e insegnanti: conservare valori differenti nel contesto globale. Non si vuole essere colonizzati, si vuole essere parte della cultura globale emergente, ma non di una globalizzazione voluta a tutti i costi, a costo quindi anche della perdita dei valori tradizionali, dei settori tradizionali, delle differenze tra i popoli; la globalizzazione dovrebbe servire solo per aumentare il benessere generale. Aiutiamo bambini, insegnanti e genitori invitandoli qui, a seminari o discussioni, o andando da loro con mostre e altro.
Anche il lavoro manuale è molto importante per i bambini…
Esattamente. Gandhi, tra l’altro, considerava molto importante la filatura manuale. Aveva uno strumento, una sorta di arcolaio, che usava per filare il cotone. Diceva che usando le mani si lavora spiritualmente, e cercava di insegnare l’unità attraverso l’espediente del lavoro manuale dell’arcolaio, mettendo in relazione l’abilità delle mani con la mente. Qui stiamo cercando di trasmettere ai bambini alcuni valori associati ai lavori manuali, insieme all’importanza di fare insieme, collettivamente. Quando si canta gioiosamente insieme si sente profondamente di non essere soli. Quando si lavora insieme, si sente di essere in gruppo. Ma quando, per esempio, si parla, qualcuno dorme, qualcun altro si guarda intorno, qualcun altro ancora si annoia, cosa che non accade quando si canta in coro o si lavora manualmente, perché in quei momenti ci si trova insieme.
Lavorate anche fuori Delhi?
Ci occupiamo di tutta l’India. Le nostre attività si indirizzano ai bambini meno privilegiati, che vivono in situazioni poverissime, sono orfani, non hanno casa o sono portatori di handicap. Organizziamo anche centri di assistenza temporanea per persone povere, per lebbrosi, per donne bisognose. Abbiamo il numero più alto di organizzazioni di volontariato del mondo e molte di queste organizzazioni svolgono un lavoro di ottimo livello, in particolare nel campo dell’empowerment dei deboli, una parola che significa dare loro potere, dare potere ai meno privilegiati (il processo definito empowerment indica acquistare padronanza di se stessi e dei propri affari, dirigere personalmente il proprio destino e influenzare la propria vita, n.d.r.). Un’altra area di cui ci occupiamo è fare in modo che le donne si rendano conto dei loro diritti, per esempio, perché questa è una società dominata prevalentemente da uomini. Questo è l’empowerment delle donne.
A proposito dell’empowerment delle donne, com’era Gandhi nei loro confronti?
Gandhi è stato il primo leader moderno che abbia portato un’alta percentuale di donne nell’attività politica. Le donne sono state sue grandi sostenitrici, fin da quando si trovava in Sud Africa. Anche sua moglie gli disse: «Le donne ti capiscono molto meglio degli uomini». Era molto comprensivo riguardo ai problemi delle donne. Una volta affermò: «La forza morale di una nazione non si capirà né dal benessere economico né dalla prosperità economica. Il benessere morale si capirà dall’ampiezza della libertà di cui godranno le donne».
Gandhi aveva molte qualità prettamente femminili, come la gentilezza. Favorì l’istruzione delle donne, organizzò molte istituzioni destinate a loro, le incoraggiò ad andare a scuola e voleva, come ho già detto, che le donne prendessero parte alla vita politica. Disse, però, che avrebbero dovuto comunque prendersi cura delle loro case e dei loro mariti, perché erano anche madri. Secondo Gandhi le donne hanno il compito di portare salute alla società; diceva che avrebbero dovuto guadagnare di più per essere indipendenti, per non dipendere dagli uomini. Voleva creare le condizioni affinché le donne potessero partecipare con pari opportunità alla vita politica ed economica del paese. Voleva l’uguaglianza. Voleva che le donne fossero autosufficienti. Non voleva che fossero dipendenti dagli uomini e chiese loro di non sposare individui che le avrebbero rese inferiori, dipendenti. Fu un grande sostenitore dell’emancipazione femminile. Il risultato è che oggi c’è una legge, allo stadio finale dell’approvazione in Parlamento, che propone di riservare il 33% dei posti di lavoro alle donne.
Gandhi era una persona veramente grande: più di cento anni fa affermava che la verità è molto importante e che la struttura morale di una società non può basarsi sul benessere economico ma sulla libertà delle donne. Era un vero rivoluzionario.
C’è ancora un’influenza di Gandhi negli indiani di oggi?
L’influenza di Gandhi c’è in ogni indiano, in quantità variabile, ma c’è. Io ritengo che senza l’influenza di Gandhi, senza la sua eredità, senza la sua presenza nella storia indiana e, in un modo o in un altro, nella società e in ogni cittadino indiano, noi non avremmo potuto essere la nazione che siamo oggi. L’India è una nazione di grandi paradossi e di enormi contraddizioni. Abbiamo diverse migliaia di gruppi etnici. Parliamo ufficialmente ventisette lingue diverse, e se provate a immaginare con quanta difficoltà comunicate in Europa dove ve ne sono meno della metà, potete capire quanto sia difficile qui da noi. Accanto alle ventisette lingue conosciute ve ne sono altre 400, tra lingue e dialetti, non riconosciute. Ci sono moltissimi gruppi etnici e tante diverse religioni: ebrei, giainisti, buddisti, zoroastriani, indù, cristiani, musulmani. Ci sono decine di Stati all’interno dell’India e ognuno differente in modo drammatico dall’altro: io, per esempio, vengo dall’estremo Sud, dal Kerala; alcuni miei colleghi vengono dal Kashmir, altri da Bombay, tutte situazioni e storie molto diverse. Oltre a essere una società multilingue, l’India è anche un posto dove esiste una grandissima sperequazione economica: il 43% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà. Molti bambini anche d’inverno vanno in giro per le strade senza i vestiti adatti, mendicando.
Ora: cosa ha fatto Gandhi? In campo religioso, per esempio, ha fortemente voluto uno statuto speciale per le religioni minoritarie. In campo politico ha spinto il paese all’indipendenza. E quando nel 1947 gli inglesi lasciarono il paese e l’India divenne indipendente, vennero dati uguali diritti a tutti i cittadini proprio grazie all’influenza di Gandhi. Senza di essa probabilmente l’India apparterrebbe al vostro gruppo di paesi, sarebbe un satellite (seppur enorme) dell’Europa. Se guardiamo, poi, agli ultimi cinquantadue anni, all’India del dopo-indipendenza, ci si accorgerà che il livello di povertà assoluto è sceso, è diminuito. Certo, lo abbiamo visto, esiste ancora: ma è diminuito e il nostro obiettivo è riuscire a far sì che nei prossimi dieci, quindici anni la povertà relativa venga contenuta ancora. Probabilmente non potrà essere eliminata. E questo per il semplice motivo che siamo troppi, e continuiamo a crescere. Infatti siamo cresciuti in modo esponenziale, anche se l’India di oggi è una nazione in surplus, vale a dire che è una nazione che produce ed esporta – a differenza del 1947 quando andavamo in giro per il mondo con ciotole per l’elemosina chiedendo grano, latte in polvere, chiedendo tutto. Dai 360 milioni che eravamo nel 1947 siamo arrivati, cinquantadue anni più tardi, al miliardo. È lì che abbiamo sbagliato. Se il numero di abitanti fosse minore, l’India non sarebbe mai arrivata a essere quello che è oggi.
Per tornare all’influenza di Gandhi in India, essa dovrebbe essere vista a diversi livelli. Non tutti vestirebbero come Gandhi. Non tutti vivrebbero il tipo di vita semplice che Gandhi conduceva. Eppure tutti dovrebbero seguire la strada della nonviolenza, anche perché ne abbiamo tanta, di violenza: ma bisogna ricordare che siamo ormai oltre un miliardo, come dicevo, più del totale dell’Europa, cioè un quinto della popolazione mondiale. In questo miliardo di persone ci sono tanti giovani che hanno entusiasmo, spirito di avventura e forza, e vogliono il cambiamento. Molti giovani probabilmente pensano che Gandhi rappresenti una filosofia di vecchio stampo, una filosofia che non è in grado di dar loro ciò che vogliono, ciò che cercano. Purtuttavia si rendono conto che la violenza causa la violenza, che l’odio porta maggiore odio, mentre le qualità pacifiche, come la tolleranza, guariscono. Queste sono le qualità di cui necessita la società indiana. E sono qualità che derivano direttamente dal pensiero e dalle azioni di Gandhi.
Dottor Radhakrishnan, lei ha dedicato tre saggi a Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai Internazionale. Come mai?
Non a caso sulla copertina dell’ultimo libro dedicato a Ikeda ho voluto che fosse riprodotta la fotografia di un faro che illumina, solitario e potente, la costa. Perché la nostra vita può essere considerata come una barca, una nave in alto mare che è scossa, che sobbalza, che veleggia in mezzo a difficoltà, dubbi, scontentezze, frustrazioni, avversità, paure, odi, complessi che la scuotono, la sbattono di qua e di là. Non sappiamo se sopravviveremo o se naufragheremo: è, in un certo senso, come se ci trovassimo sul Titanic, una nave costruita stupendamente, talmente tanto bene da non far venire in mente a nessuno che potrebbe affondare. Anche il Titanic sembrava indistruttibile, la migliore nave del mondo, eppure affondò.
In questo senso ha grandissima importanza il fattore spirituale, ed è parimenti importante nutrire la consapevolezza che abbiamo a disposizione solo una vita e che proprio in questa dobbiamo lottare per un nuovo rinascimento, basato sulla profonda consapevolezza che siamo tutti interdipendenti. Comprendere che siamo tutti interrelati, che non abbiamo un’esistenza indipendente, è una sorta di dovere, di necessità della nostra condizione umana. La tua felicità dipende dalla mia. La tua felicità dipende dalla nostra. Nessuno può essere felice in modo esclusivo quando tutti gli altri sono infelici. Gandhi insegnò e visse in questo modo: nessun altro leader dopo di lui ha agito, vissuto e pensato così se non, secondo me, il presidente Ikeda. E lo dico da non buddista: io sono nato in una famiglia indù e mantengo la mia religione di nascita, pur essendo ormai da qualche tempo, proprio perché ne comprendo profondamente la filosofia e ne sostengo le azioni, presidente onorario della Soka Gakkai indiana.
Ma al di là del mio credo, da persona che opera per la pace e l’educazione riconosco la grandezza e il significato di questo movimento, che sta diffondendo ciò che si chiama felicità. Perché insegna e diffonde un’ispirazione vibrante e vitale: in oltre un centinaio di paesi del mondo la gente sta recitando Nam-myoho-renge-kyo. E sta seguendo la Soka Gakkai, fortemente ispirata da Daisaku Ikeda e che, proprio grazie al pensiero di questo maestro, ha avuto la diffusione che oggi vediamo. Se la scienza e la tecnologia ci hanno reso demoni, perché snaturano il nostro essere umani, il compito della religione, come dicevo, è quello di percepire, in se stessi e negli altri, l’anima, e in questo restare attaccati all’umanità. Noi pensiamo di sapere tutto, ma alla resa dei conti siamo molto fragili e deboli. Insomma ammiro e percepisco profondamente l’ispirazione di quest’uomo. E ci capiamo reciprocamente.
Lei trova che ci sia un legame tra la filosofia di Gandhi e la filosofia del movimento portato avanti da Daisaku Ikeda?
Ci sono un’affinità e una somiglianza molto strette. Se qualcuno mi chiedesse perché sostengo la filosofia della SGI, che cosa vi trovo, che cosa mi colpisce, la mia risposta è molto semplice. Per me Ikeda è il Gandhi vivente. Lui è Gandhi. Per noi Gandhi non è morto e sento che nella personalità di Ikeda vi sia una sorta di successione. Questo è il motivo per cui mi sento molto legato al vostro Sensei. Inoltre ritengo che la sua visione della filosofia di Gandhi, la sua analisi della filosofia gandhiana in termini di sfida sia un’analisi brillante.
Qual è secondo lei il maggior merito del presidente Ikeda?
Il fatto che sia in grado di ispirare così tanti giovani: trovo che sia una qualità assolutamente grandiosa. Gandhi era in grado di scoprire e di nutrire molti talenti: grazie a questa sua qualità il movimento è potuto andare avanti. Anche Ikeda ha un tale dono, la capacità di scovare “bodhisattva”, la volontà di distribuire fiducia, l’esigenza di iniziare alla leadership. Con una così vasta profondità e ampiezza non si era ancora verificato, nell’ambito del Buddismo del Daishonin, un tale fenomeno: e questo è il motivo per cui, per alcune centinaia di anni, questo movimento ha avuto un’influenza per così dire “sobria”. Oggi è diventato qualcosa di diverso, una sorta di nuova rivelazione umana di Dio, una nuova religione in grado di cambiare il mondo.
L’intervista è finita. Fuori c’è ancora il sole che sembra più forte dopo la penombra della stanza; i ragazzi del giardino fermano il lavoro e, con gli occhi che ridono, si fanno intorno a noi che usciamo dalla Gandhi Smriti. Prima di salutarci il professor Radhakrishnan si ferma, sorride, ci batte le mani sulla spalla, ci ringrazia per la chiacchierata. E dice: «Lo dovete raccontare ai vostri amici italiani! Un’associazione indiana di scrittori ha scelto la Rivoluzione umana come libro del secolo!».
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