sabato 17 gennaio 2015

Buddismo e Società n.90 - gennaio febbraio 2002
Speciale A scuola di felicità
Valore della felicità e felicità del valore
di Massimiliano Tarozzi

Il pensiero di Tsunesaburo Makiguchi, educatore e filosofo dell’educazione del secolo scorso, stimola riflessioni feconde in coloro che dovranno ripensare il sistema scolastico di domani

http://www.sgi-italia.org/foto/riviste/BS/2002/90%20taroz%20mastro.jpg 
Felicità. La parola stessa fa paura se applicata all’educazione e ai processi di istruzione e apprendimento. Più facile è parlare di “obiettivi cognitivi”, di “competenze professionali” o anche di “pieno sviluppo della personalità”, perché paiono mete più prossime o talmente astratte e generiche da risultare sicuramente condivisibili. Invece la felicità spaventa. Perché da una parte appare un obiettivo troppo grande, irraggiungibile se non addirittura illusorio, dall’altra mette in crisi la sua solare semplicità e concretezza. Non è forse questa la finalità di ogni esistenza, indipendentemente dal senso che ognuno attribuisce a questa parola? Perché mai allora i processi di formazione dell’individuo, formalizzati come la scuola o informali come la famiglia, il territorio, il gruppo dei pari eccetera dovrebbero ignorare questa finalità ultima dell’azione umana?
Eppure nella scuola italiana appare inattuale ogni richiamo alla felicità come finalità fondamentale dei processi educativi. Inattuale appare del resto la nozione di felicità in sé, già seriamente compromessa nella filosofia occidentale dopo la rigorosa critica di Kant (Natoli, 1995; 2000). In generale si può osservare come l’atmosfera filosofica dell’occidente moderno appare poco propensa alla felicità soprattutto nel Novecento, che da una parte ha privilegiato il lato tenebroso dell’esistenza in cui l’autenticità si troverebbe solo nell’inquietudine e nell’angoscia, dall’altro ha escluso la dimensione interiore in un’aspirazione di felicità sociale, ideologicamente intesa.
Cosa resta? Al di là di un richiamo ideale del liberalismo anglosassone, tanto astratto quanto il diritto alla felicità espresso nella Costituzione americana, resta un’idea di felicità circoscritta e minimale o edonista e superficiale. Non fa meraviglia che questa idea di felicità filosoficamente compromessa non trovi spazio nel progetto educativo della scuola italiana, pedagogicamente in crisi.

Makiguchi e il suo tempo
Eppure è proprio questa l’indicazione chiara che emerge dall’opera e dall’attività di un educatore e filosofo dell’educazione lontano nel tempo e nello spazio.
Tsunesaburo Makiguchi visse in Giappone a cavallo fra Ottocento e Novecento. Si trovò a vivere il processo di rapida modernizzazione che avrebbe trasformato il suo paese da Stato feudale a potenza imperialista in circa cinquant’anni e assistette agli esiti disastrosi dell’ascesa al potere del militarismo nazionalista e della sua sciagurata alleanza con i nazifascismi europei. Ma soprattutto visse quelle profonde trasformazioni da uomo di scuola (prima maestro e poi direttore di scuola elementare) e da pedagogista che ha sempre accompagnato il proprio agire educativo con una costante attività autoriflessiva e critica.
Le idee pedagogiche di Makiguchi, che oggi la Nuova Italia rende note ai lettori italiani a settanta anni di distanza dalla prima pubblicazione, non sono isolabili dalla sua biografia. Makiguchi si oppose fieramente e risolutamente alle politiche educative che produssero un sistema scolastico prima come strumento per accelerare la modernizzazione “dall’alto” durante l’era Meiji, e poi per creare il consenso intorno a un regime sempre più assolutista e per disseminare l’ideologia e la retorica militarista. 
Basti l’esempio di questa frase, che nel 1890 il primo ministro Yamagata Aritomo poteva pronunciare in Parlamento: «Due sono gli elementi indispensabili nel campo della politica estera: primo le forze armate e, secondo, l’educazione. Se il popolo giapponese non sarà intriso di spirito patriottico, la nazione non potrà essere forte [...] il patriottismo può essere inculcato soltanto attraverso l’educazione [...] così il patriottismo diviene una seconda natura» (cit. in Gatti, 1983, p. 31).
Makiguchi di fronte a tutto questo fu quindi ribelle e intransigente, e pagò personalmente il prezzo di quelle scelte: fu spesso bersaglio di provvedimenti disciplinari, di trasferimenti e retrocessioni. Nel 1930, due anni dopo la sua conversione al Buddismo di Nichiren, fondò la Soka Kyoiku Gakkai, la “società educativa per la creazione di valore”, di cui l’attuale Soka Gakkai è la prosecuzione moderna, un’organizzazione di insegnanti che portava avanti il metodo educativo da lui teorizzato e reclamava a gran voce una riforma complessiva e radicale del sistema educativo. Fu allora che divenne sospetto al regime. Fu arrestato insieme al suo allievo Josei Toda, in nome della famigerata legge liberticida per il mantenimento dell’ordine pubblico, e morì nel 1944 per le conseguenze di un durissimo regime carcerario.

La pedagogia creatrice di valore
L’educazione creativa di Tsunesaburo Makiguchi è nell’edizione italiana una sintesi dell’originale giapponese (Soka kyoikugaku taikei, cioè Il sistema della pedagogia creatrice di valore), che originariamente constava di quattro volumi pubblicati in quattro anni successivi a partire dal 1930, parte di un progetto ancora più ampio che ne prevedeva addirittura dodici. L’edizione italiana è quindi una sintesi significativa del pensiero di Makiguchi soprattutto per quello che riguarda la parte teorica, la parte fondativa nell’ambito della filosofia dell’educazione. È proprio questa parte iniziale che si apre con la riflessione sulle finalità dell’educazione e con l’affermazione della felicità come fine tanto della vita come dell’educazione.
Si tratta di un’opera frammentaria, un po’ caotica, da cui si intuiscono vaste ma non sistematiche letture anche di autori occidentali. A ben guardare questo non è un limite, bensì l’esito intenzionale di uno stile di pensiero. Il libro va letto come una sorta di diario intellettuale scritto da un educatore militante che affronta problemi concreti e riflette a partire da essi. Makiguchi, nel ricordo di chi lo ha conosciuto, aveva l’immagine severa del maestro che teneva sempre in mano un foglietto, una busta usata, un pezzo di carta infilati nel kimono sul quale appuntava pensieri, riflessioni, progetti.
Il libro è il frutto del tentativo di dare una forma sistematica a quei foglietti, operato da Makiguchi insieme al suo allievo Josei Toda.

Il fine dell'educazione
Il suo accento sulla felicità come fine dell’educazione va letto all’interno di una pedagogia vissuta con militante spirito pacifista, con responsabilità etica e sociale, volta allo sviluppo delle potenzialità individuali in opposizione alla dogmatica tendenza omologante del regime.
Ma al di là del valore storico e delle vicende biografiche, che accrescono lo spessore esistenziale della proposta, il richiamo alla felicità in educazione conserva uno straordinario valore se non, addirittura, una valenza profetica.
Certo, è necessario chiarire quale felicità sia quella cui Makiguchi si riferisce. Anche se il termine che Makiguchi utilizza, kofuku, si riferisce proprio al suo significato comune, non si tratta ovviamente di piatto edonismo, ma di una felicità intesa come esito collaterale al processo di “creazione di valore”. 
Con l’espressione “creazione di valore” Makiguchi intende sostituire alla nozione di verità i processi di attribuzione intenzionale di senso, nella propria sfera individuale e in quella sociale. I contenuti dell’insegnamento e soprattutto le esperienze educative non interessano in quanto vere, universali, o moralmente coerenti con un sistema di valori oggettivi, ma sono educative nella misura in cui consentono di creare valore a partire da esse, sperimentando il significato che possono acquistare per determinati soggetti, sempre in un’ottica di bene comune e di vantaggio sociale.
L’educazione è quindi quel processo che sviluppa nei soggetti la competenza della creazione di valore e, nel fare questo, i soggetti stessi trovano la felicità.
Diventa chiaro che l’idea di felicità che emerge, benché sia elaborata e sorga dall’interiorità del soggetto, non è in alcun modo egoistica. Il processo di creazione di valore non è mai un processo individuale compiuto da un singolo avulso dal suo contesto sociale. Anzi nella creazione di valore, e nella felicità che è un processo parallelo a essa, vi è implicita una forte responsabilità etica e sociale (Gius & Zamperini, 1995¸ Gius & Coin, 1999). Scrive Makiguchi: «Dove si trova, allora, la nostra felicità? Essa proviene unicamente dalla condivisione di gioie e dolori con gli altri e con la collettività intera. È essenziale, dunque, che ogni vera idea di felicità racchiuda un serio impegno a partecipare alla vita sociale» (Makiguchi, 2000, p. 10).
Non si può però comprendere il concetto di felicità di Makiguchi prescindendo dalla visione buddista all’interno della quale è affermato. Una visione in cui la felicità del singolo sorge dalla consapevolezza della rete di relazioni che legano fra loro tutti gli esseri umani e questi con l’ambiente naturale. Un’idea recentemente riproposta da Daisaku Ikeda nell’ambito di una ampia e argomentata proposta di riforma del sistema educativo giapponese (Ikeda, 2000).

Questioni attuali
Come si è detto, il fatto stesso di porre il tema dell’educazione alla felicità apre una serie di stimolanti e attuali questioni.
Innanzitutto, riaprire il dibattito sulle finalità educative, al di là di automatiche risposte metafisiche o dogmaticamente moralistiche, appare oggi più che mai necessario e urgente.
Non è sufficiente rifugiarsi dietro la formulazione giuridica astratta del principio del “pieno sviluppo della personalità”, condivisibilissimo, ma vago e astratto.
Porre come fine la felicità dei soggetti in formazione significa escludere ogni tentativo di sottomettere il sistema educativo all’influenza di qualsivoglia finalità esteriore come finalità politiche, militari, economiche o ideologiche. Nella proposta su citata, Daisaku Ikeda ha evidenziato l’urgenza della necessità «di un cambiamento paradigmatico dall’idea di un’educazione per il bene della società alla costruzione di una società al servizio delle necessità essenziali dell’educazione» (op. cit. p.17).
Questo comporta, richiede e presuppone l’autonomia e l’indipendenza (epistemologicaoltre che politica) dell’educare, e richiede una pedagogia come scienza autonoma che produca al proprio interno quella riflessione sulle finalità educative che sinora ha delegato ad altre discipline e saperi (Bertolini, 1988; Tarozzi, 2001).
In secondo luogo la formazione non è solo una preparazione alla vita adulta intesa come sforzo per acquisire ciò che manca, un passaggio dallo status di non-persona a quello di soggetto, ma deve essere in sé un momento significativo dal punto di vista esistenziale. Cioè un’esperienza felice, qui e ora, non soltanto nell’attesa di un esito futuro.
Riccardo Massa, da materialista convinto, ha sostenuto il medesimo concetto, quando scriveva che «si devono creare le condizioni perché il bambino sia felice qui e ora» in quanto «sacrificare il suo presente al futuro è inutile e disumano» (Massa, 1997, p. 110)
In terzo luogo la ricerca della felicità (nella sua dimensione sociale e mai egoistica) scavalca le limitate e limitanti gabbie degli obiettivi educativi e didattici, che assegnano un’enfasi eccessiva al cognitivo, per aprire sterminati orizzonti, che mantengono il necessario rigore progettuale, ma in cui il senso dell’insegnamento/apprendimento si misura sul piano esistenziale, sulla capacità di produrre senso (di “creare valore”) per sé e per la comunità sociale a partire dall’esperienza significativamente vissuta e intenzionalmente orientata da educatori.
La dimensione esistenziale, la creazione di valore, dovrebbe trovare spazio a scuola, dove i bambini e gli adolescenti formano i propri vissuti, le proprie biografie, la propria memoria e le proprie aspirazioni.
Peraltro Makiguchi non riduce questo processo soltanto alle prime fasi della vita, ma lo estende a una formazione lungo tutto l’arco della vita. Egli insiste sulla necessità di una scuola a tempo parziale non per ragioni economiche o organizzative ma nella convinzione che la comunità sociale, la famiglia, le opportunità extrascolastiche e anche una certa forma di lavoro, rappresentino una risorsa formativa – una sorta di “crediti formativi” ante litteram – da utilizzare sin dalle prime stagioni della vita. Alla riduzione del tempo scolastico quotidiano farebbe riscontro poi un’estensione del tempo della formazione per arrivare a una formazione lungo tutto l’arco della vita, un’idea decisamente attuale comprensibile solo nell’ottica di una formazione vissuta come esperienza in sé felice.
Infine, nella coincidenza delle finalità ultime umane con quelle del sistema educativo, si trova tutto l’entusiastico ottimismo di chi con la vita e con l’opera ha testimoniato la profonda convinzione che nell’educazione si possa trovare la risposta alla crisi di senso della contemporaneità.
Un entusiastico ottimismo visibile ancora oggi nella Soka Gakkai, che ha trasformato in realizzazioni concrete le teorie di Makiguchi fondando livelli completi di scuola in Giappone e nel Sud est asiatico e un’università negli Stati Uniti, impegnati nell’educazione alla pace, alla nonviolenza, all’ambiente, al dialogo interculturale.
Il senso di questa eredità è bene espresso nella frase che Ikeda ha pronunciato in un discorso al Simon Wiesenthal Center di Los Angeles nel 1996: «L’aspirazione di Makiguchi al dialogo e alla cooperazione fra genti di fedi diverse per superare le enormi sfide che l’umanità affronta, vive oggi nelle attività della Soka Gakkai. Noi continueremo a costruire il movimento di pace, educazione e cultura in memoria di coloro che hanno dato la vita per la giustizia e per i

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