Buddismo e Società n.90 - gennaio febbraio 2002
Speciale A scuola di felicità
Educazione e spiritualità
di Daisaku Ikeda
Dobbiamo aiutare i giovani a fondare sulla base del potere
"morbido" il dialogo e la comunicazione con le altre persone, per
creare una società al servizio dell’educazione
Il ventunesimo secolo è finalmente arrivato. Spinto
dal desiderio di vederlo diventare il secolo dell’educazione, nell’autunno del
duemila ho presentato un saggio su questo tema (Buddismo e società, n.
86, pp. 14-25). Avevo un duplice scopo: denunciare il fatto che in Giappone
l’educazione continua a essere considerata semplicemente un mezzo per
conseguire un fine, e chiedere di adottare un nuovo paradigma: non più
l’educazione al servizio dei bisogni della società ma la società al servizio
del lungo processo educativo.
Ritengo fondamentale che l’educazione venga di nuovo finalizzata al suo obiettivo principale, la felicità degli studenti. [...] Anche se le scuole dovrebbero essere luoghi ideali in cui vivere e imparare con gioia, ultimamente in Giappone sono aumentati episodi di prepotenza e altre forme di violenza fisica e psicologica. […] Condizioni aberranti sono diventate la norma. I bambini sono il microcosmo dei tempi e come tali rispecchiano il futuro della società. Fino a quando questi specchi resteranno appannati e oscurati, non vedremo per loro un futuro di speranza.
Mentre il Ministero della Pubblica Istruzione ha istituito alcune misure per rimediare alla situazione, ritengo della massima urgenza stabilire un’etica di assoluta intolleranza di fronte alla violenza, non solo nelle scuole ma in tutta la società.
Porre fine alla violenza
L’educatore giapponese Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), primo presidente della Soka Gakkai, lamentava la condizione educativa dei ragazzi della sua epoca, fortemente influenzata dalla marcia verso l’espansione imperiale. Makiguchi nutriva il profondo desiderio di risolvere i problemi che facevano soffrire dieci milioni di bambini e ragazzi, sottoposti alle pressioni di una società in subbuglio, ed era determinato a far sì che il peso di questi problemi non gravasse sulla generazione successiva. Da questa intenzione è nata la sua opera principale sull’educazione, Soka kyoikugaku taikei (Il sistema della pedagogia creatrice di valore), pubblicata oltre settanta anni fa, nel 1930. Al centro della sua formulazione di soka, o “creazione di valore”, vi è il principio che l’educazione dovrebbe dare a tutti i bambini l’opportunità di sviluppare senza limiti la loro potenzialità e di vivere vite appagate e non perturbate dalle influenze distruttive della società. Questo principio continua a essere ancor oggi la forza trainante delle scuole Soka.
Dobbiamo porre fine alla tragedia della violenza nelle scuole, che induce i ragazzi a distruggere essi stessi i semi preziosi delle loro potenzialità. Quando visito le scuole Soka a Tokyo e nel Kansai, parlo direttamente con gli studenti, dicendo chiaramente che la prepotenza e la violenza sono sempre sbagliate, e li incoraggio a lavorare insieme per eliminare questi mali sociali.
Naturalmente non dico niente di nuovo. La maggior parte delle persone adulte ha il buon senso di considerare “il rifiuto della violenza” uno dei principi fondamentali della società civilizzata, ma purtroppo, ultimamente, sembra che questa non sia più considerata una norma di comportamento sociale. […]
Se vogliamo porre fine alla violenza nelle scuole abbiamo bisogno soprattutto di coraggio – di quel tipo di coraggio che non ci farà né cedere né rimanere passivi di fronte al male. Quando mostriamo questo tipo di coraggio, la prepotenza e tutte le altre forme di violenza vengono inevitabilmente respinte. […]
Avversione al bene, avversione al male
La filosofa e scrittrice religiosa Simone Weil (1909-43) osservò acutamente che per gli scrittori della sua epoca «le parole che contenevano riferimenti al bene e al male» erano state «declassate, specialmente quelle relative al bene» (p. 288). Anche adesso, le parole che indicano il bene – non solo coraggio, ma anche impegno, pazienza, amore e speranza – sono spesso ascoltate con cinismo e indifferenza. Il nostro è un clima sociale nel quale la gente ha forse paura di essere giudicata dagli altri ed esita perfino a pronunciare tali parole. Ma se non affrontiamo con coraggio tale cinismo e tale indifferenza, non saremo capaci di dare risposte forti ed efficaci.
Questo nascosto malessere sociale e spirituale si è diffuso rapidamente negli ultimi anni. Recentemente, durante un noto programma televisivo giapponese, è stata posta la domanda: «Perché è sbagliato uccidere le persone?». […] Questi fatti indicano esattamente dove sta il problema: quando vengono messi in discussione persino i princìpi e le virtù da sempre espressi e sostenuti dalle maggiori religioni del mondo, come la proibizione di togliere la vita a un essere umano, si può facilmente immaginare l’atteggiamento che prevale di fronte a comportamenti coercitivi e violenti come la prepotenza. Dobbiamo renderci conto che il cinismo e l’indifferenza corrodono la società alle radici e sono potenzialmente più pericolosi di qualsiasi atto malvagio individuale.
Due uomini illustri con i quali ho pubblicato una serie di dialoghi, il famoso scrittore russo per bambini Albert A. Likhanov e Norman Cousins, conosciuto come “la coscienza dell’America”, condividono entrambi questo punto di vista. Hanno sostenuto con fermezza che l’indifferenza e il cinismo di fronte al male sono più pericolosi dello stesso male, perché rivelano una mancanza di coinvolgimento passionale verso la vita, un isolamento e un distacco dalla realtà.
Con un’espressione apparentemente paradossale Likhanov ci mostra quale danno può provocare l’apatia nell’animo di una persona giovane: «Non aver paura dei tuoi nemici. Il peggio che possono fare è ucciderti. Non avere paura degli amici. Al massimo potrebbero tradirti. Temi quelli a cui non importa, loro non uccidono e non tradiscono, ma il tradimento e l’assassinio esistono grazie al loro silenzioso consenso».
In altre parole, è fingere di non vedere omicidi o tradimenti che fa proliferare tali mali all’infinito. Allo stesso modo, Cousins fa riferimento alla seguente dichiarazione di Robert Louis Stevenson: «Odio il cinismo molto più di quanto odio il diavolo, ma forse i due non sono che la stessa cosa» (pp. 48-49).
Cousins esprime così la profonda preoccupazione che il disfattismo e la poca fiducia in se stessi, tipici di un atteggiamento pessimista, sminuiscano e distruggano valori come l’idealismo, la speranza e la fiducia.
Uno stato vitale controllato dall’apatia e dal cinismo cresce immune dai sentimenti dell’amore, dell’odio, della sofferenza e della gioia e ripiega in uno sterile mondo di alienazione. L’indifferenza verso il male implica un’indifferenza verso il bene. Porta a uno stato di vita deprimente e a uno spazio semantico estraneo al dramma della lotta tra il bene e il male, caratteristica dell’esistenza umana.
I bambini risentono profondamente dell’apatia e del cinismo dilaganti in un mondo adulto privo di valori. È forse per questa ragione che gli adulti si sentono a disagio quando percepiscono nei cuori dei bambini una strana, e al contempo familiare, oscurità.
Il male, come il bene, è un’innegabile realtà. Senza il male non c’è il bene e senza il bene non c’è il male: entrambi esistono e si definiscono grazie alla loro complementarietà. A seconda della risposta o reazione personale, il male può essere trasformato in bene e il bene in male. In questo senso sono entrambi relativi. Bene e male sono dunque definiti in relazione al proprio opposto o “altro”, e il “sé” è definito da questa dinamica.
Il sé in assenza dell'altro
Nel Buddismo troviamo i princìpi dell’“unicità di bene e male” (zen’aku funi) e della “neutralità fondamentale della vita nei riguardi del bene e del male” (zen’aku muki) (Nichiren, The Writings). Ad esempio, al Budda storico Shakyamuni (rappresentante del bene) era necessario un avversario, il male, l’“altro”, per ottenere l’Illuminazione e quindi realizzare lo scopo della sua vita. Questi fu suo cugino Devadatta, che cercò prima di sminuirlo e poi di distruggerlo. Non riconoscere e non riconciliare se stessi con un “altro” opposto è il difetto di base di un approccio apatico e cinico alla vita, nel quale esiste solo il sé isolato.
Nella totalità della psiche legata indissolubilmente all’altro si trova un senso più vero e più pieno del sé. Carl Jung (1875-1961) fece una distinzione tra l’ego, che conosce solo il contenuto esterno della psiche, e il sé, che ne conosce anche il contenuto interiore e unifica la razionalità con l’inconscio. Nel mondo dell’apatia e del cinismo troviamo solo un sé isolato che vaga per le superfici della mente conscia – quello a cui Jung si riferisce come ego.
Il sé che non si identifica con l’altro è insensibile al dolore, all’angoscia e alla sofferenza dell’altro. Tende a confinare se stesso nel suo mondo, percependo una minaccia alla minima provocazione ed esplodendo di conseguenza in un comportamento violento, oppure voltandosi dall’altra parte con distacco.
Vorrei azzardare col dire che questa mentalità nel ventesimo secolo ha fornito il terreno al germogliare di ideologie come il fascismo e il bolscevismo.
Più recentemente abbiamo assistito alla nascita della realtà virtuale, che credo possa oscurare l’altro ancora di più. Messo in chiaro questo aspetto, è ovvio che nessuno di noi può starsene in disparte a guardare e pensare che il comportamento problematico dei ragazzi (nei confronti della realtà virtuale) sia responsabilità di qualcun altro.
Nel corso di una nostra discussione, lo studioso per la pace Johan Galtung ha sostenuto che il requisito per avere un “dialogo all’esterno” è il “dialogo interiore”. Se il concetto dell’altro è assente dal sé, non può esservi un vero dialogo.
Un colloquio tra due individui a entrambi i quali manca il senso dell’altro potrebbe apparire un dialogo, ma in realtà è un semplice scambio di dichiarazioni unilaterali. Viene a mancare inevitabilmente la comunicazione. La cosa più dolorosa in questo tipo di spazio semantico – loquace e vuoto allo stesso tempo – è che le parole perdono la loro risonanza e sono alla fine soffocate e senza significato. La morte delle parole significa naturalmente la morte di un aspetto essenziale della nostra umanità – la capacità di linguaggio che ci ha fatto meritare l’appellativo di homo loquens.
La realtà può essere rivelata solo attraverso un dialogo genuino, dove il sé e l’altro trascendono gli stretti limiti dell’ego e interagiscono pienamente. Questo senso globale della realtà esprime una spiritualità umana ricca di vitalità e di immedesimazione.
In un discorso che ho tenuto all’Università di Harvard nel 1991, ho dichiarato che i tempi richiedono l’etica del “potere morbido”, la cui essenza è costituita da una spiritualità motivata interiormente, che deriva dall’introspezione e si manifesta quando l’anima lotta attraverso fasi di sofferenza, conflitto, ambivalenza, riflessione matura e infine risolutezza.
L’anima si rivela soltanto quando arde un intenso scambio tra le persone, come dentro una fucina; è attraverso il dialogo interiore e il dialogo tra il sé e l’altro che il nostro essere si tempra e si raffina. Solo allora possiamo cominciare ad afferrare e manifestare pienamente il fatto di essere vivi, esprimendo una spiritualità universale che abbraccia l’intera specie umana.
Il mondo interiore dell'anima e il sentimeno religioso
Credo che l’eredità spirituale dell’umanità possa essere rintracciata nelle grandi opere della letteratura, che potrebbero essere considerate la quintessenza del sé interiore.
Qui, vorrei riferirmi a Memorie da una casa di morti, un’opera che viene considerata una svolta fondamentale nel pensiero di Fyodor Dostoyevsky.
Il giovane Dostoyevsky era stato condannato a quattro anni di lavori forzati nel freddo pungente della Siberia, come punizione per aver sostenuto presunte idee rivoluzionarie. Nell’opera in questione lo scrittore russo documenta in modo incomparabile le virtù umane che aveva scoperto attraverso la sua terribile esperienza. «La gente comune [...] non accusa mai il criminale del crimine che ha commesso, qualunque esso sia. Lo perdona, in considerazione della sentenza a lui data. Si sa bene che la gente comune di tutta la Russia considera il crimine una sfortuna e il criminale uno sfortunato. Queste definizioni sono significative e profonde, pur se istintive e inconsce» (pp. 55-56).
[…] Considerare il crimine una sfortuna e il criminale uno sfortunato riflette un’ampiezza di percezione che è inclusiva dell’altro. Non viene fatta una distinzione tra sé e il criminale: queste espressioni emanano un senso di connessione e immedesimazione. Quando nel mezzo delle avversità rimane forte il senso di immedesimazione nell’altro c’è un fluire rigoglioso della comunicazione. Al contrario, la perdita del senso di connessione tra gli individui indica la rottura della comunicazione nella società. […]
L’arroganza incurante, che sta alla radice di tutti i mali ideologici, presuppone che il sé sia il bene e l’altro il male. Invece il tipo di atteggiamento descritto da Dostoyevsky permette di vedere come una persona, spinta dalle circostanze verso il male, possa anche essere indirizzata verso il bene. Da questa visione scaturisce l’«impulso interiore alla compassione» (p. 7) che Jean Jacques Rousseau considera la base primordiale della società.
Questa compassione naturale è strettamente in risonanza con il concetto della Via del Bodhisattva del Buddismo mahayana, che potrebbe essere riassunto simbolicamente dalle parole del bodhisattva Vimalakirti: «Poiché tutti gli esseri viventi sono malati, anch’io sono malato» (p. 65), o dall’esempio di Gesù di Nazareth, che concentrava più amore e compassione per la “pecorella smarrita” che per tutti gli altri.
Il tema ricorrente nelle opere successive di Dostoyevsky è la difesa della giustizia di Dio nel creare un mondo dove esistono sia il bene che il male. Tema centrale delle considerazioni di Rousseau sull’educazione è il sentimento religioso indipendente e non limitato dai dogmi e dall’autorità della Chiesa. Sulla base dei sentimenti universali di immedesimazione nell’altro e della spiritualità sembrerebbe in qualche modo svilupparsi un sentimento religioso innato negli esseri umani.
Nel ventesimo secolo, teatro di guerre e distruzione, dalla lotta nonviolenta del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King Jr. emana lo splendore della spiritualità. Gandhi sosteneva che la religione «fornisce una base morale a tutte le altre attività, che altrimenti non la possiederebbero» (p. 63). Ci si potrebbe chiedere come abbiano fatto le loro lotte a diventare movimenti di massa e come mai tanta gente oggi abbracci la nonviolenza. Credo che la risposta risieda in ciò che sta dietro alle parole e alle azioni di questi leader. Ognuno di loro si basava su una forte convinzione religiosa, che gli ha permesso di rimanere impassibile davanti a qualsiasi avversità. […]
Coltivare il sentimento religioso
[…] Il ruolo della religione è inseparabile dall’individuo e dal suo ambiente: la religione deve consentire agli individui di raggiungere i propri scopi personali e allo stesso tempo di contribuire in modo positivo alla società. Se questi due cammini intrecciati divergono, il sentimento religioso si riduce a settarismo, la religione degenera in qualcosa di non umanistico e di antisociale. Qualsiasi movimento religioso che considera il suo ruolo e la sua missione separati dalla società compie, a mio parere, un grave errore. C’è una netta distinzione tra il sentimento religioso di ampio respiro da me qui descritto e l’ottuso settarismo.
Qualsiasi sentimento religioso che non permette agli individui di creare valore o di compiere azioni costruttive nella vita personale e nella società è insidioso e non merita affatto di essere chiamato religioso. Varie forze nel mondo – autoritarismo, soldi, forza bruta – cercano di violare la dignità umana. Il ruolo della Soka Gakkai nella società consiste nel lottare contro queste forze impiegando lo spirito che scaturisce dal profondo della vita (Una pace duratura, p. 218).
Quando nel 1995 la zona di Kobe in Giappone è stata colpita da un devastante terremoto, i membri della Soka Gakkai che abitavano nella regione hanno contribuito in maniera significativa alle operazioni di soccorso, fornendo immediatamente assistenza volontaria alla popolazione colpita. I centri locali della Soka Gakkai hanno funzionato come ricoveri d’emergenza e sono stati offerti cibi caldi. Queste azioni sono state profondamente apprezzate.
Nel settembre 2000 i membri della Soka Gakkai hanno partecipato alle attività di soccorso nelle regioni della costa orientale del Giappone colpite da un’alluvione. Credo che questa condivisione di gioie e sofferenze sia un’espressione naturale di spiritualità e sentimento religioso.
Una sfida fondamentale per le religioni tradizionali, che rappresenta oltretutto una prova della loro capacità di contribuire alla civiltà del ventunesimo secolo, sarà di superare il settarismo, e far sì che la spiritualità e il sentimento religioso diventino patrimonio dell’umanità intera. […]
La costruzione del carattere attraverso la lettura
Credo che il mezzo principale per far fiorire la vita interiore dei bambini sia il contatto con l’arte e la letteratura che avviene attraverso la lettura.
Il primo passo per rinnovare il dialogo, laddove si siano interrotti i legami umani e la comunicazione, è quello di rivitalizzare e infondere di spiritualità le parole che si scrivono e che si dicono. Avvicinarsi ai capolavori della letteratura è il mezzo ideale per raggiungere questo obiettivo, un’attività che non dovrebbe limitarsi alla scuola. Immergersi nel mondo della grande letteratura in giovane età è un’esperienza di valore inestimabile che ho vissuto personalmente, e rappresenta un bene duraturo. […]
In un certo senso, la lettura presenta la somma delle esperienze di vita dell’autore. In Nagai saka (Il lungo pendio), il noto romanziere Shugoro Yamamoto osserva: «La vita è lunga. La destinazione è la stessa sia raggiungendo la cima della montagna con un solo salto sia arrivandoci con costanza passo dopo passo. Invece di compiere il viaggio con un salto solo, scalando la montagna lentamente si ha l’opportunità di ammirare il panorama lungo la via, gli alberi, le piante, le sorgenti. Inoltre, nel compiere con cura e attenzione ogni passo, aumenta la fiducia in se stessi. Tutto ciò diventa fonte di grande forza».
Le sue parole profonde e di grande immaginazione possono essere applicate tranquillamente all’esperienza della lettura. La lettura dei classici è una sfida. Anche quando i testi non sono lunghi, afferrare il loro significato non è così facile come lo è, diciamo, nel caso dei fumetti. Può darsi che un passaggio complesso debba essere letto due o tre volte prima di percepirne il senso. Alcuni concetti possono sfuggire a una comprensione immediata, ma vengono invece afferrati dopo un po’ di tempo.
Questi sforzi sono molto simili a quelli dello scalatore che controlla con attenzione dove appoggia i piedi e, attento a ciò che lo circonda, si avvicina alla cima.
Leggere i riassunti delle grandi opere non rende loro onore. Solo dopo esserci sforzati fino in fondo per afferrare il pieno significato di un libro, questo diventa parte di noi. Leggere da soli seduti al proprio banco ha i suoi meriti, ma il piacere della lettura aumenta quando viene fatta assieme a compagni e insegnanti. È rafforzata dallo scambio di idee, specialmente se si considera la lettura un’abitudine della vita. Gli anni della mia adolescenza, trascorsi tra le macerie del dopoguerra, sono stati arricchiti immensamente dalle letture che facevo assieme ad altri giovani in un circolo del mio quartiere. Anche le letture fatte con il mio maestro Josei Toda sono dei preziosi ricordi, incisi per sempre nella mia vita.
Il mio maestro non si stancava mai di incoraggiarci ad essere dei lettori attivi e non passivi, e di sforzarci di assorbire i libri senza esserne sopraffatti. Era il mio maestro di vita e mi insegnò, attraversoil suo atteggiamento e le sue parole, che il modo in cui ci rapportiamo ai libri è il modo in cui ci rapportiamo alle persone: imbattersi in un buon libro è come incontrare un bravo maestro o un buon amico.
I pericoli della realtà virtuale
Ho una seconda ragione per insistere sull’importanza della lettura. Leggere può proteggere la vita interiore dalle influenze negative di quella che viene chiamata realtà virtuale, che distorce e simula esperienze della vita reale, nella quale invece la gente condivide emozioni vere attraverso il contatto diretto con gli altri e con la natura.
I forti stimoli prodotti dalla realtà virtuale possono far ristagnare l’immaginazione e addormentare le capacità di provare compassione e sofferenza.
Condizionati dalla realtà virtuale, gli individui diventano dei semplici recettori passivi di immagini programmate, mentre il pensiero critico, la facoltà di prendere decisioni, di amare e di immedesimarsi con gli altri – tutte caratteristiche di una spiritualità motivata interiormente – tendono ad atrofizzarsi.
Il filosofo scienziato Albert Jacquard ha fatto la seguente osservazione: «La scienza dell’informazione ha un suo valore fino a quando porta notizie. Tuttavia, fornisce solo informazione inscatolata o surgelata. Non è capace di tirare fuori la creatività, che invece si esprime naturalmente nel corso di un dialogo fatto di parole e di silenzi». (Piccola filosofia, p. 18). Una descrizione della comunicazione disumanizzata davvero appropriata.
La lettura invece ispira l’anima come una brezza ristoratrice. Leggere non è altro che un tenace, intimo dialogo tra l’autore e il lettore. Questa è la ragione per cui definisco il mondo della lettura come una somma di esperienze di vita.
La lettura offre, sia ai giovani che agli adulti, l’opportunità di staccarsi dalla routine della vita quotidiana e riflettere sul passato e sul futuro. Che sia un libro già letto in precedenza o uno in cui ci si è immersi per la prima volta, sentiamo qualcosa di genuino, come se ogni singola fibra del nostro essere ne percepisce il contenuto. Solo facendo questa esperienza direttamente possiamo trasmetterne il valore ai ragazzi. La verità arriva all’ascoltatore non attraverso parole vuote ma tramite la ricchezza e la profondità del carattere.
Oltre a tutto ciò, l’esperienza della lettura nutre la spontanea curiosità dei bambini. Li incoraggia a riflettere e sviluppa la loro capacità a ricercare soluzioni autonome.
La trasformazione spirituale di Tolstoj
Il mondo della letteratura è ricco di domande, riflessioni e sorprese.
Prendiamo una scena dall’ultimo capitolo di Anna Karenina di Leone Tolstoy, dove il protagonista Levin si chiede: «Chi sono? Dove sono? Perché sono?» (p. 403).
Levin, che si dice impersoni lo stesso Tolstoy, sta cercando la ragione della sua esistenza quando incontra, per caso, un contadino, le cui parole lo trasformano profondamente: «Che volete? Sono due uomini diversi. Uno vive solo per il suo ventre, laddove Focanitc è un vecchio giusto, che vive per la sua anima e teme Dio» (p. 404).
Tolstoj cattura acutamente questa trasformazione, l’apertura di nuovi orizzonti e il fluire di emozioni di Levin. «Vivere per l’anima». Queste semplici parole, dette di getto da un contadino, penetrano nel suo cuore. Camminando lungo la strada, Levin continua il suo soliloquio mentre assapora una nuova sensazione.
«Sentiva nell’anima alcunché di nuovo e l’esaminava con piacere, pur non sapendo ancora cosa fosse» (p. 405).
Sentendosi finalmente soddisfatto di aver trovato la risposta, Levin andò nel bosco e si sdraiò sull’erba. Pensava tra sé:
«Che ho scoperto? Nulla: ho appreso soltanto quel che già conoscevo. Ho compreso quella forza che non sta solo nel passato e che m’ha dato la vita; mi sono liberato dall’inganno e ho riconosciuto il padrone» (p. 407).
Nelle opere di Tolstoy appaiono frequentemente immagini di trasformazioni dall’oscurità alla luce: il punto di partenza è una domanda, che porta al contatto profondo e ispirato di due anime per poi arrivare, attraverso l’introspezione, alla scoperta e alla formazione di un nuovo sé.
In virtù della sua rinnovata spiritualità, Levin comprende la dura e cruda realtà della guerra: esseri umani che si ammazzano tra loro. L’emergente verità trapela nella domanda: «[Il popolo è pronto] non solo a sacrificarsi, ma anche ad uccidere i turchi? Il popolo fa sacrifizi per la sua anima, non per l’omicidio» (p. 421). Questa osservazione mette in dubbio la legittimità del fervore nazionalistico che aveva fatto del sacrificio di sé una nobile impresa durante la guerra con i serbi.
L’eterno comandamento “non uccidere” acquista nuovo significato ed è permeato di un senso di immediatezza, quando invocato da un individuo come Levin che ha vissuto un forte tormento spirituale.
Per me il momento culminante della storia è la scena finale, dove Levin rivela i suoi dubbi: «Se la prova principale della divinità risiede nella rivelazione di quello che è il bene, perché mai, allora, questa rivelazione si limita alla sola chiesa cristiana? Che rapporto ha questa rivelazione con le credenze dei buddisti e dei maomettani, che professano la loro fede e fanno pure il bene?» (p. 426).
«Ebbene, e gli ebrei? E i maomettani, e i confuciani e i buddisti? Che cosa sono? Forse che queste centinaia di milioni di uomini sono privati di quella suprema felicità, senza la quale la vita non ha significato?» (p. 428).
Considero Anna Karenina ineguagliabile nel ritrarre la spiritualità e il sentimento religioso che risiedono in ogni animo umano.
L’arricchimento attraverso le lettura
[…] Alcuni dicono che ci siamo allontanati dai libri. Condivido questa preoccupazione ed è per questo motivo che desidero sottolineare l’importanza di leggere in gioventù. È davvero triste trovare giovani che non hanno provato l’entusiasmo di conoscere bene almeno un classico della letteratura. Spero sempre che i bambini dell’asilo e delle elementari possano avere tante opportunità di apprezzare la letteratura sia a scuola che a casa. Pur se molti bambini leggono per conto proprio, l’esperienza è molto più ricca quando i genitori e gli insegnanti leggono loro ad alta voce.
I bambini sentono il calore delle parole nella voce dei genitori e degli insegnanti, e la loro immaginazione viene stimolata a inventare i paesaggi e le scene drammatiche della storia. La modulazione vocale del lettore aiuta i bambini a sentire e a sviluppare tante emozioni, dalla tristezza alla gioia. Mentre leggono ad alta voce, i genitori e gli insegnanti possono osservare le espressioni dei bambini cambiando tono o facendo pause per capire i loro pensieri. Attraverso queste esperienze cresce il rapporto di fiducia reciproco.
Così come un contadino semina e prega per un generoso raccolto, è importante che gli adulti leggano ai bambini nella speranza che crescano forti e sani, sviluppando il loro potenziale illimitato e realizzando tutti i loro sogni. Ogni fase dello sviluppo di un bambino dipende dal sentirsi rassicurato e fiducioso del fatto che qualcuno crede in lui o in lei.
L’educazione e il futuro
Alcuni programmi promossi dal dipartimento degli educatori della Soka Gakkai offrono un esempio di come potenziare la capacità educativa della società.
Nel 1968 i membri del dipartimento lanciarono un programma di consulenza educativa. Durante i suoi trentadue anni di esercizio questo programma ha offerto servizi volontari di consulenza sull’educazione a circa 280.000 persone. Al momento, ottocento membri del dipartimento educatori svolgono il ruolo di consulenti in ventotto comunità sparse per tutto il Giappone. […]
Nel 1999 è stato lanciato un nuovo programma per sostenere l’educazione nelle famiglie e nella comunità, nel quale un educatore, a stretto contatto con la realtà sociale locale, organizza discussioni informali su questioni relative all’educazione. Questo sistema si espanderà e sarà presente nelle comunità di tutto il Giappone.
Grazie a questi programmi di consulenza tanti bambini hanno riacquistato fiducia in loro stessi e hanno ricominciato da capo.
È molto importante aiutare un bambino che soffre o un genitore che si sente isolato per vari motivi: per questo credo sia necessario integrare la consulenza offerta dalle scuole e dallo Stato. […] Secondo i dati del Programma di consulenza sull’educazione, il 70% dei casi presentati ha a che fare con l’assenteismo o il rifiuto di andare a scuola.
La principale causa dell’abbandono scolastico è la paura della prepotenza.
Di fronte a queste realtà non possiamo rimanere senza fare niente. Se vogliamo risolvere il problema della prepotenza e della violenza, tutta la società deve dimostrare una attenzione maggiore. Abbiamo urgente bisogno di un’etica sociale che non accetti e non condoni la violenza di alcun tipo. Dobbiamo cambiare la tendenza all’indifferenza e al cinismo, che attualmente permeano la società.
La Soka Gakkai è profondamente impegnata a denunciare questi problemi e a cercare delle soluzioni. I suoi sforzi in questo campo rispondono in parte alla sfida generale di creare una società che risponda ai bisogni dell’educazione e, in un’ottica più ampia, si adoperi per stabilire le basi di una cultura di pace.
Ciò che determinerà il futuro non sono solo gli sviluppi politici ed economici, ma soprattutto gli aspetti concreti, come la realizzazione, in ogni fibra del tessuto sociale, di una solida capacità di educare con impegno e responsabilità.
La felicità dei nostri bambini è in un equilibrio precario.
Spinto dall’unico grande desiderio di rendere quello presente il secolo dell’educazione, insieme a persone di ogni parte del mondo desidero impegnarmi per alimentare sempre di più la corrente dell’educazione umanistica.
(La versione originale di questo articolo si trova sul sito della SGI nella sezione dedicata alle "Proposte per l'educazione", con il titolo Reviving Education: The Brilliance of the Inner Spirit, 9 gennaio 2001)
Ritengo fondamentale che l’educazione venga di nuovo finalizzata al suo obiettivo principale, la felicità degli studenti. [...] Anche se le scuole dovrebbero essere luoghi ideali in cui vivere e imparare con gioia, ultimamente in Giappone sono aumentati episodi di prepotenza e altre forme di violenza fisica e psicologica. […] Condizioni aberranti sono diventate la norma. I bambini sono il microcosmo dei tempi e come tali rispecchiano il futuro della società. Fino a quando questi specchi resteranno appannati e oscurati, non vedremo per loro un futuro di speranza.
Mentre il Ministero della Pubblica Istruzione ha istituito alcune misure per rimediare alla situazione, ritengo della massima urgenza stabilire un’etica di assoluta intolleranza di fronte alla violenza, non solo nelle scuole ma in tutta la società.
Porre fine alla violenza
L’educatore giapponese Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), primo presidente della Soka Gakkai, lamentava la condizione educativa dei ragazzi della sua epoca, fortemente influenzata dalla marcia verso l’espansione imperiale. Makiguchi nutriva il profondo desiderio di risolvere i problemi che facevano soffrire dieci milioni di bambini e ragazzi, sottoposti alle pressioni di una società in subbuglio, ed era determinato a far sì che il peso di questi problemi non gravasse sulla generazione successiva. Da questa intenzione è nata la sua opera principale sull’educazione, Soka kyoikugaku taikei (Il sistema della pedagogia creatrice di valore), pubblicata oltre settanta anni fa, nel 1930. Al centro della sua formulazione di soka, o “creazione di valore”, vi è il principio che l’educazione dovrebbe dare a tutti i bambini l’opportunità di sviluppare senza limiti la loro potenzialità e di vivere vite appagate e non perturbate dalle influenze distruttive della società. Questo principio continua a essere ancor oggi la forza trainante delle scuole Soka.
Dobbiamo porre fine alla tragedia della violenza nelle scuole, che induce i ragazzi a distruggere essi stessi i semi preziosi delle loro potenzialità. Quando visito le scuole Soka a Tokyo e nel Kansai, parlo direttamente con gli studenti, dicendo chiaramente che la prepotenza e la violenza sono sempre sbagliate, e li incoraggio a lavorare insieme per eliminare questi mali sociali.
Naturalmente non dico niente di nuovo. La maggior parte delle persone adulte ha il buon senso di considerare “il rifiuto della violenza” uno dei principi fondamentali della società civilizzata, ma purtroppo, ultimamente, sembra che questa non sia più considerata una norma di comportamento sociale. […]
Se vogliamo porre fine alla violenza nelle scuole abbiamo bisogno soprattutto di coraggio – di quel tipo di coraggio che non ci farà né cedere né rimanere passivi di fronte al male. Quando mostriamo questo tipo di coraggio, la prepotenza e tutte le altre forme di violenza vengono inevitabilmente respinte. […]
Avversione al bene, avversione al male
La filosofa e scrittrice religiosa Simone Weil (1909-43) osservò acutamente che per gli scrittori della sua epoca «le parole che contenevano riferimenti al bene e al male» erano state «declassate, specialmente quelle relative al bene» (p. 288). Anche adesso, le parole che indicano il bene – non solo coraggio, ma anche impegno, pazienza, amore e speranza – sono spesso ascoltate con cinismo e indifferenza. Il nostro è un clima sociale nel quale la gente ha forse paura di essere giudicata dagli altri ed esita perfino a pronunciare tali parole. Ma se non affrontiamo con coraggio tale cinismo e tale indifferenza, non saremo capaci di dare risposte forti ed efficaci.
Questo nascosto malessere sociale e spirituale si è diffuso rapidamente negli ultimi anni. Recentemente, durante un noto programma televisivo giapponese, è stata posta la domanda: «Perché è sbagliato uccidere le persone?». […] Questi fatti indicano esattamente dove sta il problema: quando vengono messi in discussione persino i princìpi e le virtù da sempre espressi e sostenuti dalle maggiori religioni del mondo, come la proibizione di togliere la vita a un essere umano, si può facilmente immaginare l’atteggiamento che prevale di fronte a comportamenti coercitivi e violenti come la prepotenza. Dobbiamo renderci conto che il cinismo e l’indifferenza corrodono la società alle radici e sono potenzialmente più pericolosi di qualsiasi atto malvagio individuale.
Due uomini illustri con i quali ho pubblicato una serie di dialoghi, il famoso scrittore russo per bambini Albert A. Likhanov e Norman Cousins, conosciuto come “la coscienza dell’America”, condividono entrambi questo punto di vista. Hanno sostenuto con fermezza che l’indifferenza e il cinismo di fronte al male sono più pericolosi dello stesso male, perché rivelano una mancanza di coinvolgimento passionale verso la vita, un isolamento e un distacco dalla realtà.
Con un’espressione apparentemente paradossale Likhanov ci mostra quale danno può provocare l’apatia nell’animo di una persona giovane: «Non aver paura dei tuoi nemici. Il peggio che possono fare è ucciderti. Non avere paura degli amici. Al massimo potrebbero tradirti. Temi quelli a cui non importa, loro non uccidono e non tradiscono, ma il tradimento e l’assassinio esistono grazie al loro silenzioso consenso».
In altre parole, è fingere di non vedere omicidi o tradimenti che fa proliferare tali mali all’infinito. Allo stesso modo, Cousins fa riferimento alla seguente dichiarazione di Robert Louis Stevenson: «Odio il cinismo molto più di quanto odio il diavolo, ma forse i due non sono che la stessa cosa» (pp. 48-49).
Cousins esprime così la profonda preoccupazione che il disfattismo e la poca fiducia in se stessi, tipici di un atteggiamento pessimista, sminuiscano e distruggano valori come l’idealismo, la speranza e la fiducia.
Uno stato vitale controllato dall’apatia e dal cinismo cresce immune dai sentimenti dell’amore, dell’odio, della sofferenza e della gioia e ripiega in uno sterile mondo di alienazione. L’indifferenza verso il male implica un’indifferenza verso il bene. Porta a uno stato di vita deprimente e a uno spazio semantico estraneo al dramma della lotta tra il bene e il male, caratteristica dell’esistenza umana.
I bambini risentono profondamente dell’apatia e del cinismo dilaganti in un mondo adulto privo di valori. È forse per questa ragione che gli adulti si sentono a disagio quando percepiscono nei cuori dei bambini una strana, e al contempo familiare, oscurità.
Il male, come il bene, è un’innegabile realtà. Senza il male non c’è il bene e senza il bene non c’è il male: entrambi esistono e si definiscono grazie alla loro complementarietà. A seconda della risposta o reazione personale, il male può essere trasformato in bene e il bene in male. In questo senso sono entrambi relativi. Bene e male sono dunque definiti in relazione al proprio opposto o “altro”, e il “sé” è definito da questa dinamica.
Il sé in assenza dell'altro
Nel Buddismo troviamo i princìpi dell’“unicità di bene e male” (zen’aku funi) e della “neutralità fondamentale della vita nei riguardi del bene e del male” (zen’aku muki) (Nichiren, The Writings). Ad esempio, al Budda storico Shakyamuni (rappresentante del bene) era necessario un avversario, il male, l’“altro”, per ottenere l’Illuminazione e quindi realizzare lo scopo della sua vita. Questi fu suo cugino Devadatta, che cercò prima di sminuirlo e poi di distruggerlo. Non riconoscere e non riconciliare se stessi con un “altro” opposto è il difetto di base di un approccio apatico e cinico alla vita, nel quale esiste solo il sé isolato.
Nella totalità della psiche legata indissolubilmente all’altro si trova un senso più vero e più pieno del sé. Carl Jung (1875-1961) fece una distinzione tra l’ego, che conosce solo il contenuto esterno della psiche, e il sé, che ne conosce anche il contenuto interiore e unifica la razionalità con l’inconscio. Nel mondo dell’apatia e del cinismo troviamo solo un sé isolato che vaga per le superfici della mente conscia – quello a cui Jung si riferisce come ego.
Il sé che non si identifica con l’altro è insensibile al dolore, all’angoscia e alla sofferenza dell’altro. Tende a confinare se stesso nel suo mondo, percependo una minaccia alla minima provocazione ed esplodendo di conseguenza in un comportamento violento, oppure voltandosi dall’altra parte con distacco.
Vorrei azzardare col dire che questa mentalità nel ventesimo secolo ha fornito il terreno al germogliare di ideologie come il fascismo e il bolscevismo.
Più recentemente abbiamo assistito alla nascita della realtà virtuale, che credo possa oscurare l’altro ancora di più. Messo in chiaro questo aspetto, è ovvio che nessuno di noi può starsene in disparte a guardare e pensare che il comportamento problematico dei ragazzi (nei confronti della realtà virtuale) sia responsabilità di qualcun altro.
Nel corso di una nostra discussione, lo studioso per la pace Johan Galtung ha sostenuto che il requisito per avere un “dialogo all’esterno” è il “dialogo interiore”. Se il concetto dell’altro è assente dal sé, non può esservi un vero dialogo.
Un colloquio tra due individui a entrambi i quali manca il senso dell’altro potrebbe apparire un dialogo, ma in realtà è un semplice scambio di dichiarazioni unilaterali. Viene a mancare inevitabilmente la comunicazione. La cosa più dolorosa in questo tipo di spazio semantico – loquace e vuoto allo stesso tempo – è che le parole perdono la loro risonanza e sono alla fine soffocate e senza significato. La morte delle parole significa naturalmente la morte di un aspetto essenziale della nostra umanità – la capacità di linguaggio che ci ha fatto meritare l’appellativo di homo loquens.
La realtà può essere rivelata solo attraverso un dialogo genuino, dove il sé e l’altro trascendono gli stretti limiti dell’ego e interagiscono pienamente. Questo senso globale della realtà esprime una spiritualità umana ricca di vitalità e di immedesimazione.
In un discorso che ho tenuto all’Università di Harvard nel 1991, ho dichiarato che i tempi richiedono l’etica del “potere morbido”, la cui essenza è costituita da una spiritualità motivata interiormente, che deriva dall’introspezione e si manifesta quando l’anima lotta attraverso fasi di sofferenza, conflitto, ambivalenza, riflessione matura e infine risolutezza.
L’anima si rivela soltanto quando arde un intenso scambio tra le persone, come dentro una fucina; è attraverso il dialogo interiore e il dialogo tra il sé e l’altro che il nostro essere si tempra e si raffina. Solo allora possiamo cominciare ad afferrare e manifestare pienamente il fatto di essere vivi, esprimendo una spiritualità universale che abbraccia l’intera specie umana.
Il mondo interiore dell'anima e il sentimeno religioso
Credo che l’eredità spirituale dell’umanità possa essere rintracciata nelle grandi opere della letteratura, che potrebbero essere considerate la quintessenza del sé interiore.
Qui, vorrei riferirmi a Memorie da una casa di morti, un’opera che viene considerata una svolta fondamentale nel pensiero di Fyodor Dostoyevsky.
Il giovane Dostoyevsky era stato condannato a quattro anni di lavori forzati nel freddo pungente della Siberia, come punizione per aver sostenuto presunte idee rivoluzionarie. Nell’opera in questione lo scrittore russo documenta in modo incomparabile le virtù umane che aveva scoperto attraverso la sua terribile esperienza. «La gente comune [...] non accusa mai il criminale del crimine che ha commesso, qualunque esso sia. Lo perdona, in considerazione della sentenza a lui data. Si sa bene che la gente comune di tutta la Russia considera il crimine una sfortuna e il criminale uno sfortunato. Queste definizioni sono significative e profonde, pur se istintive e inconsce» (pp. 55-56).
[…] Considerare il crimine una sfortuna e il criminale uno sfortunato riflette un’ampiezza di percezione che è inclusiva dell’altro. Non viene fatta una distinzione tra sé e il criminale: queste espressioni emanano un senso di connessione e immedesimazione. Quando nel mezzo delle avversità rimane forte il senso di immedesimazione nell’altro c’è un fluire rigoglioso della comunicazione. Al contrario, la perdita del senso di connessione tra gli individui indica la rottura della comunicazione nella società. […]
L’arroganza incurante, che sta alla radice di tutti i mali ideologici, presuppone che il sé sia il bene e l’altro il male. Invece il tipo di atteggiamento descritto da Dostoyevsky permette di vedere come una persona, spinta dalle circostanze verso il male, possa anche essere indirizzata verso il bene. Da questa visione scaturisce l’«impulso interiore alla compassione» (p. 7) che Jean Jacques Rousseau considera la base primordiale della società.
Questa compassione naturale è strettamente in risonanza con il concetto della Via del Bodhisattva del Buddismo mahayana, che potrebbe essere riassunto simbolicamente dalle parole del bodhisattva Vimalakirti: «Poiché tutti gli esseri viventi sono malati, anch’io sono malato» (p. 65), o dall’esempio di Gesù di Nazareth, che concentrava più amore e compassione per la “pecorella smarrita” che per tutti gli altri.
Il tema ricorrente nelle opere successive di Dostoyevsky è la difesa della giustizia di Dio nel creare un mondo dove esistono sia il bene che il male. Tema centrale delle considerazioni di Rousseau sull’educazione è il sentimento religioso indipendente e non limitato dai dogmi e dall’autorità della Chiesa. Sulla base dei sentimenti universali di immedesimazione nell’altro e della spiritualità sembrerebbe in qualche modo svilupparsi un sentimento religioso innato negli esseri umani.
Nel ventesimo secolo, teatro di guerre e distruzione, dalla lotta nonviolenta del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King Jr. emana lo splendore della spiritualità. Gandhi sosteneva che la religione «fornisce una base morale a tutte le altre attività, che altrimenti non la possiederebbero» (p. 63). Ci si potrebbe chiedere come abbiano fatto le loro lotte a diventare movimenti di massa e come mai tanta gente oggi abbracci la nonviolenza. Credo che la risposta risieda in ciò che sta dietro alle parole e alle azioni di questi leader. Ognuno di loro si basava su una forte convinzione religiosa, che gli ha permesso di rimanere impassibile davanti a qualsiasi avversità. […]
Coltivare il sentimento religioso
[…] Il ruolo della religione è inseparabile dall’individuo e dal suo ambiente: la religione deve consentire agli individui di raggiungere i propri scopi personali e allo stesso tempo di contribuire in modo positivo alla società. Se questi due cammini intrecciati divergono, il sentimento religioso si riduce a settarismo, la religione degenera in qualcosa di non umanistico e di antisociale. Qualsiasi movimento religioso che considera il suo ruolo e la sua missione separati dalla società compie, a mio parere, un grave errore. C’è una netta distinzione tra il sentimento religioso di ampio respiro da me qui descritto e l’ottuso settarismo.
Qualsiasi sentimento religioso che non permette agli individui di creare valore o di compiere azioni costruttive nella vita personale e nella società è insidioso e non merita affatto di essere chiamato religioso. Varie forze nel mondo – autoritarismo, soldi, forza bruta – cercano di violare la dignità umana. Il ruolo della Soka Gakkai nella società consiste nel lottare contro queste forze impiegando lo spirito che scaturisce dal profondo della vita (Una pace duratura, p. 218).
Quando nel 1995 la zona di Kobe in Giappone è stata colpita da un devastante terremoto, i membri della Soka Gakkai che abitavano nella regione hanno contribuito in maniera significativa alle operazioni di soccorso, fornendo immediatamente assistenza volontaria alla popolazione colpita. I centri locali della Soka Gakkai hanno funzionato come ricoveri d’emergenza e sono stati offerti cibi caldi. Queste azioni sono state profondamente apprezzate.
Nel settembre 2000 i membri della Soka Gakkai hanno partecipato alle attività di soccorso nelle regioni della costa orientale del Giappone colpite da un’alluvione. Credo che questa condivisione di gioie e sofferenze sia un’espressione naturale di spiritualità e sentimento religioso.
Una sfida fondamentale per le religioni tradizionali, che rappresenta oltretutto una prova della loro capacità di contribuire alla civiltà del ventunesimo secolo, sarà di superare il settarismo, e far sì che la spiritualità e il sentimento religioso diventino patrimonio dell’umanità intera. […]
La costruzione del carattere attraverso la lettura
Credo che il mezzo principale per far fiorire la vita interiore dei bambini sia il contatto con l’arte e la letteratura che avviene attraverso la lettura.
Il primo passo per rinnovare il dialogo, laddove si siano interrotti i legami umani e la comunicazione, è quello di rivitalizzare e infondere di spiritualità le parole che si scrivono e che si dicono. Avvicinarsi ai capolavori della letteratura è il mezzo ideale per raggiungere questo obiettivo, un’attività che non dovrebbe limitarsi alla scuola. Immergersi nel mondo della grande letteratura in giovane età è un’esperienza di valore inestimabile che ho vissuto personalmente, e rappresenta un bene duraturo. […]
In un certo senso, la lettura presenta la somma delle esperienze di vita dell’autore. In Nagai saka (Il lungo pendio), il noto romanziere Shugoro Yamamoto osserva: «La vita è lunga. La destinazione è la stessa sia raggiungendo la cima della montagna con un solo salto sia arrivandoci con costanza passo dopo passo. Invece di compiere il viaggio con un salto solo, scalando la montagna lentamente si ha l’opportunità di ammirare il panorama lungo la via, gli alberi, le piante, le sorgenti. Inoltre, nel compiere con cura e attenzione ogni passo, aumenta la fiducia in se stessi. Tutto ciò diventa fonte di grande forza».
Le sue parole profonde e di grande immaginazione possono essere applicate tranquillamente all’esperienza della lettura. La lettura dei classici è una sfida. Anche quando i testi non sono lunghi, afferrare il loro significato non è così facile come lo è, diciamo, nel caso dei fumetti. Può darsi che un passaggio complesso debba essere letto due o tre volte prima di percepirne il senso. Alcuni concetti possono sfuggire a una comprensione immediata, ma vengono invece afferrati dopo un po’ di tempo.
Questi sforzi sono molto simili a quelli dello scalatore che controlla con attenzione dove appoggia i piedi e, attento a ciò che lo circonda, si avvicina alla cima.
Leggere i riassunti delle grandi opere non rende loro onore. Solo dopo esserci sforzati fino in fondo per afferrare il pieno significato di un libro, questo diventa parte di noi. Leggere da soli seduti al proprio banco ha i suoi meriti, ma il piacere della lettura aumenta quando viene fatta assieme a compagni e insegnanti. È rafforzata dallo scambio di idee, specialmente se si considera la lettura un’abitudine della vita. Gli anni della mia adolescenza, trascorsi tra le macerie del dopoguerra, sono stati arricchiti immensamente dalle letture che facevo assieme ad altri giovani in un circolo del mio quartiere. Anche le letture fatte con il mio maestro Josei Toda sono dei preziosi ricordi, incisi per sempre nella mia vita.
Il mio maestro non si stancava mai di incoraggiarci ad essere dei lettori attivi e non passivi, e di sforzarci di assorbire i libri senza esserne sopraffatti. Era il mio maestro di vita e mi insegnò, attraversoil suo atteggiamento e le sue parole, che il modo in cui ci rapportiamo ai libri è il modo in cui ci rapportiamo alle persone: imbattersi in un buon libro è come incontrare un bravo maestro o un buon amico.
I pericoli della realtà virtuale
Ho una seconda ragione per insistere sull’importanza della lettura. Leggere può proteggere la vita interiore dalle influenze negative di quella che viene chiamata realtà virtuale, che distorce e simula esperienze della vita reale, nella quale invece la gente condivide emozioni vere attraverso il contatto diretto con gli altri e con la natura.
I forti stimoli prodotti dalla realtà virtuale possono far ristagnare l’immaginazione e addormentare le capacità di provare compassione e sofferenza.
Condizionati dalla realtà virtuale, gli individui diventano dei semplici recettori passivi di immagini programmate, mentre il pensiero critico, la facoltà di prendere decisioni, di amare e di immedesimarsi con gli altri – tutte caratteristiche di una spiritualità motivata interiormente – tendono ad atrofizzarsi.
Il filosofo scienziato Albert Jacquard ha fatto la seguente osservazione: «La scienza dell’informazione ha un suo valore fino a quando porta notizie. Tuttavia, fornisce solo informazione inscatolata o surgelata. Non è capace di tirare fuori la creatività, che invece si esprime naturalmente nel corso di un dialogo fatto di parole e di silenzi». (Piccola filosofia, p. 18). Una descrizione della comunicazione disumanizzata davvero appropriata.
La lettura invece ispira l’anima come una brezza ristoratrice. Leggere non è altro che un tenace, intimo dialogo tra l’autore e il lettore. Questa è la ragione per cui definisco il mondo della lettura come una somma di esperienze di vita.
La lettura offre, sia ai giovani che agli adulti, l’opportunità di staccarsi dalla routine della vita quotidiana e riflettere sul passato e sul futuro. Che sia un libro già letto in precedenza o uno in cui ci si è immersi per la prima volta, sentiamo qualcosa di genuino, come se ogni singola fibra del nostro essere ne percepisce il contenuto. Solo facendo questa esperienza direttamente possiamo trasmetterne il valore ai ragazzi. La verità arriva all’ascoltatore non attraverso parole vuote ma tramite la ricchezza e la profondità del carattere.
Oltre a tutto ciò, l’esperienza della lettura nutre la spontanea curiosità dei bambini. Li incoraggia a riflettere e sviluppa la loro capacità a ricercare soluzioni autonome.
La trasformazione spirituale di Tolstoj
Il mondo della letteratura è ricco di domande, riflessioni e sorprese.
Prendiamo una scena dall’ultimo capitolo di Anna Karenina di Leone Tolstoy, dove il protagonista Levin si chiede: «Chi sono? Dove sono? Perché sono?» (p. 403).
Levin, che si dice impersoni lo stesso Tolstoy, sta cercando la ragione della sua esistenza quando incontra, per caso, un contadino, le cui parole lo trasformano profondamente: «Che volete? Sono due uomini diversi. Uno vive solo per il suo ventre, laddove Focanitc è un vecchio giusto, che vive per la sua anima e teme Dio» (p. 404).
Tolstoj cattura acutamente questa trasformazione, l’apertura di nuovi orizzonti e il fluire di emozioni di Levin. «Vivere per l’anima». Queste semplici parole, dette di getto da un contadino, penetrano nel suo cuore. Camminando lungo la strada, Levin continua il suo soliloquio mentre assapora una nuova sensazione.
«Sentiva nell’anima alcunché di nuovo e l’esaminava con piacere, pur non sapendo ancora cosa fosse» (p. 405).
Sentendosi finalmente soddisfatto di aver trovato la risposta, Levin andò nel bosco e si sdraiò sull’erba. Pensava tra sé:
«Che ho scoperto? Nulla: ho appreso soltanto quel che già conoscevo. Ho compreso quella forza che non sta solo nel passato e che m’ha dato la vita; mi sono liberato dall’inganno e ho riconosciuto il padrone» (p. 407).
Nelle opere di Tolstoy appaiono frequentemente immagini di trasformazioni dall’oscurità alla luce: il punto di partenza è una domanda, che porta al contatto profondo e ispirato di due anime per poi arrivare, attraverso l’introspezione, alla scoperta e alla formazione di un nuovo sé.
In virtù della sua rinnovata spiritualità, Levin comprende la dura e cruda realtà della guerra: esseri umani che si ammazzano tra loro. L’emergente verità trapela nella domanda: «[Il popolo è pronto] non solo a sacrificarsi, ma anche ad uccidere i turchi? Il popolo fa sacrifizi per la sua anima, non per l’omicidio» (p. 421). Questa osservazione mette in dubbio la legittimità del fervore nazionalistico che aveva fatto del sacrificio di sé una nobile impresa durante la guerra con i serbi.
L’eterno comandamento “non uccidere” acquista nuovo significato ed è permeato di un senso di immediatezza, quando invocato da un individuo come Levin che ha vissuto un forte tormento spirituale.
Per me il momento culminante della storia è la scena finale, dove Levin rivela i suoi dubbi: «Se la prova principale della divinità risiede nella rivelazione di quello che è il bene, perché mai, allora, questa rivelazione si limita alla sola chiesa cristiana? Che rapporto ha questa rivelazione con le credenze dei buddisti e dei maomettani, che professano la loro fede e fanno pure il bene?» (p. 426).
«Ebbene, e gli ebrei? E i maomettani, e i confuciani e i buddisti? Che cosa sono? Forse che queste centinaia di milioni di uomini sono privati di quella suprema felicità, senza la quale la vita non ha significato?» (p. 428).
Considero Anna Karenina ineguagliabile nel ritrarre la spiritualità e il sentimento religioso che risiedono in ogni animo umano.
L’arricchimento attraverso le lettura
[…] Alcuni dicono che ci siamo allontanati dai libri. Condivido questa preoccupazione ed è per questo motivo che desidero sottolineare l’importanza di leggere in gioventù. È davvero triste trovare giovani che non hanno provato l’entusiasmo di conoscere bene almeno un classico della letteratura. Spero sempre che i bambini dell’asilo e delle elementari possano avere tante opportunità di apprezzare la letteratura sia a scuola che a casa. Pur se molti bambini leggono per conto proprio, l’esperienza è molto più ricca quando i genitori e gli insegnanti leggono loro ad alta voce.
I bambini sentono il calore delle parole nella voce dei genitori e degli insegnanti, e la loro immaginazione viene stimolata a inventare i paesaggi e le scene drammatiche della storia. La modulazione vocale del lettore aiuta i bambini a sentire e a sviluppare tante emozioni, dalla tristezza alla gioia. Mentre leggono ad alta voce, i genitori e gli insegnanti possono osservare le espressioni dei bambini cambiando tono o facendo pause per capire i loro pensieri. Attraverso queste esperienze cresce il rapporto di fiducia reciproco.
Così come un contadino semina e prega per un generoso raccolto, è importante che gli adulti leggano ai bambini nella speranza che crescano forti e sani, sviluppando il loro potenziale illimitato e realizzando tutti i loro sogni. Ogni fase dello sviluppo di un bambino dipende dal sentirsi rassicurato e fiducioso del fatto che qualcuno crede in lui o in lei.
L’educazione e il futuro
Alcuni programmi promossi dal dipartimento degli educatori della Soka Gakkai offrono un esempio di come potenziare la capacità educativa della società.
Nel 1968 i membri del dipartimento lanciarono un programma di consulenza educativa. Durante i suoi trentadue anni di esercizio questo programma ha offerto servizi volontari di consulenza sull’educazione a circa 280.000 persone. Al momento, ottocento membri del dipartimento educatori svolgono il ruolo di consulenti in ventotto comunità sparse per tutto il Giappone. […]
Nel 1999 è stato lanciato un nuovo programma per sostenere l’educazione nelle famiglie e nella comunità, nel quale un educatore, a stretto contatto con la realtà sociale locale, organizza discussioni informali su questioni relative all’educazione. Questo sistema si espanderà e sarà presente nelle comunità di tutto il Giappone.
Grazie a questi programmi di consulenza tanti bambini hanno riacquistato fiducia in loro stessi e hanno ricominciato da capo.
È molto importante aiutare un bambino che soffre o un genitore che si sente isolato per vari motivi: per questo credo sia necessario integrare la consulenza offerta dalle scuole e dallo Stato. […] Secondo i dati del Programma di consulenza sull’educazione, il 70% dei casi presentati ha a che fare con l’assenteismo o il rifiuto di andare a scuola.
La principale causa dell’abbandono scolastico è la paura della prepotenza.
Di fronte a queste realtà non possiamo rimanere senza fare niente. Se vogliamo risolvere il problema della prepotenza e della violenza, tutta la società deve dimostrare una attenzione maggiore. Abbiamo urgente bisogno di un’etica sociale che non accetti e non condoni la violenza di alcun tipo. Dobbiamo cambiare la tendenza all’indifferenza e al cinismo, che attualmente permeano la società.
La Soka Gakkai è profondamente impegnata a denunciare questi problemi e a cercare delle soluzioni. I suoi sforzi in questo campo rispondono in parte alla sfida generale di creare una società che risponda ai bisogni dell’educazione e, in un’ottica più ampia, si adoperi per stabilire le basi di una cultura di pace.
Ciò che determinerà il futuro non sono solo gli sviluppi politici ed economici, ma soprattutto gli aspetti concreti, come la realizzazione, in ogni fibra del tessuto sociale, di una solida capacità di educare con impegno e responsabilità.
La felicità dei nostri bambini è in un equilibrio precario.
Spinto dall’unico grande desiderio di rendere quello presente il secolo dell’educazione, insieme a persone di ogni parte del mondo desidero impegnarmi per alimentare sempre di più la corrente dell’educazione umanistica.
(La versione originale di questo articolo si trova sul sito della SGI nella sezione dedicata alle "Proposte per l'educazione", con il titolo Reviving Education: The Brilliance of the Inner Spirit, 9 gennaio 2001)
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