lunedì 19 gennaio 2015

Buddismo e Società n.90 - gennaio febbraio 2002
Speciale A scuola di felicità
Imparare a creare
di Salvatore Natoli

Per Makiguchi la felicità è autovalorizzazione
dei soggetti e perciò, come sostengono le tradizioni pedagogiche di scuola attiva a partire da John Dewey, l’educazione deve sviluppare la dimensione creativa


Salvatore Natoli è professore di Filosofia teoretica all’Università La Bicocca di Milano

Se aveste chiesto a un greco del V-VI secolo a.C. o anche più avanti, fino al II, cosa vuol dire pedagogia… non avrebbe saputo rispondere: non esisteva neanche la parola. Esisteva però paideia. E la paideia non era una disciplina: era il realizzarsi completo della vita, della vita dei singoli, della vita della polis. La paideia era personale ed era, fondamentalmente, politica, era compito della città. Quindi la paideiacome capacità di realizzare il bene, o di produrre valore nei termini di Makiguchi, era la stessa cosa. La società doveva trarre da sé e dai suoi membri tutte le potenzialità esistenti in essi. Era quindi presente la dimensione del collettivo, la dimensione olistica. Tutti temi che noi troviamo nel libro di Tsunesaburo Makiguchi che, come è stato detto, è una cronaca, un testo di appunti, una raccolta di pensieri, la registrazione di una pratica, di una condotta, di un’esperienza. Difatti l’autore è stato soprattutto un maestro e quindi ha trasmesso nello scritto quello che andava facendo. Per questo il libro ha la vitalità di un’esperienza, e non è proprio un libro di un autore che pensa astrattamente e separatamente dalla sua prassi. 
L’educazione è vista come un’impresa generale, che la società deve produrre nel suo complesso, e questo è stato particolarmente significativo al tempo di Makiguchi, di fronte a un sistema politico che voleva esso stesso forgiare la società. Questo è un aspetto importante: a quell’epoca in Giappone il sistema formativo non era un sistema privato. Era verticale ma potente, pubblico, noi diremmo di educazione nazionale. C’era un elemento collettivo. Era una formazione collettiva, politica, ma imposta. Vigevano sistemi pedagogici di indottrinamento, coattivi, dove in sostanza veniva meno la soggettività. Perciò questo libro si colloca in una dimensione molto particolare: è orientale, ma allo stesso tempo non lo è. Direi che John Dewey, nella formazione di Makiguchi, è più importante di Budda. Non a caso il nostro autore scopre il Buddismo dopo i cinquant’anni, ma il suo vero background è la tradizione politico-individuale e sociale occidentale. La crescita dell’individuo è la crescita della comunità. La società deve concorrere allo sviluppo della soggettività. 
Questa posizione coincide con la libertà dei moderni, che è eversiva rispetto a un sistema di rivoluzione dall’alto che tutto aveva presente tranne la libertà delle soggettività, e che al contrario intendeva piegare le soggettività agli interessi di un patriottismo fondamentalmente guidato dall’alto. Una cosa che, per altro verso, è piuttosto ricorrente nelle politiche totalitarie occidentali. Non a caso Dewey e la tradizione di soggettivismo libertario sono stati nell’occidente fortemente antitetici rispetto alle situazioni di indottrinamento che veniva dall’alto. 

Felicità e realizzazione di séMa torniamo al nostro autore.
La felicità, che cos’è? La felicità è la capacità di “produrre valore”, dice Makiguchi. In termini più antichi la felicità coincide con la realizzazione di sé, che è la perfectio boni di cui parlava la tradizione medievale. Bonum est diffusivum sui, il bene tende a diffondersi, tende a espandersi, tende a crescere. E questo è più che mai vero nell’individuo: l’essere umano si realizza, ma anche tutti gli altri enti naturali, allo stesso modo in cui un albero fiorisce. Cos’è la fioritura di un albero se non la realizzazione di sé, la fecondità? Fecondità ha una radice indoeuropea, fe, da cui viene fuori femina, in quanto generante, ferax, della terra carica di frutta, che i latini chiamavano anche felix – la terra ubertosa è una terra felix; da cui derivafilius, in quanto allattato, da cui deriva fecunditas.
Quindi la felicità è la realizzazione,
 caratterizzata molto dall’espansione dell’abbondanza. Da questo punto di vista direi che Makiguchi ha ragione quando parla di una felicità intesa come autovalorizzazione dei soggetti: la pedagogia deve sviluppare nei ragazzi, e in generale in coloro che educa, la dimensione creativa. Questo approccio – che appartiene a tutte le tradizioni di scuola attiva che scaturiscono dalla tradizione di Dewey – è estremamente soggettivista: al centro c’è il soggetto, c’è il bambino, il ragazzo, l’individuo, il quale non deve apprendere qualcosa, ma deve apprendere a creare, e quindi non deve essere riempito, ma deve essere sollecitato. Deve essere reso protagonista. Oggi comunemente si dice una cosa molto antica: che la vera pedagogia non deve insegnare qualcosa, ma deve insegnare ad apprendere, deve fornire abilità. Evidentemente, qui fornire abilità vuol dire non insegnare metodi ma insegnare a fare qualche cosa, mentre con il metodo non si impara niente. Bisogna imparare a fare qualcosa, piccola, e cominciando a fare le cose poi si impara a fare, come era tipico nel grande artigianato rinascimentale, quando si andava “a bottega”. Raffaello andava da Correggio, che non gli insegnava il metodo della pittura ma gli diceva «prendi il pennello e dipingi, tira fuori».
Dunque l’elemento fondamentale è insegnare tecniche non al fine di far apprendere una tecnica ma perché attraverso la tecnica il soggetto diventi realizzativo. C’è un antico frammento di Anassagora che nel V secolo a. C. dice chegli esseri umani sono animali intelligenti perché hanno le mani. La posizione di Makiguchi è proprio questa: la felicità è realizzare. Qui c’è un altro tema su cui il libro è ricco di suggerimenti. Cosa vuol dire felicità del realizzare? La felicità del realizzare non è una felicità meramente fruitiva, come quella di chi è felice perché mangia dolci. Alla fine gli viene l’indigestione. È una felicità attiva, cioè legata al dolore della creazione. Immagine esemplare di questa felicità è il parto: perché una felicità in cui il soggetto crea esige il travaglio. La felicità come soddisfazione non è felicità ma seduzione, è impoverimento, eccesso di cura e non cura del soggetto, un eccesso di custodia dove il soggetto non diventa mai attivo, non diventa mai protagonista, non rischia, non si spende perché è sempre protetto e aiutato. Invece la gioia della creazione esige il dolore dello sforzo. Sembrerebbe Nietzsche in certi passaggi. La gioia della creazione: questa è la felicità. 

Nella società e nella storiaIn genere le passioni sono indefinibili, tutte però sono descrivibili; anche se la descrizione, come insegna la filologia, esige l’affresco, il dettaglio. Vorrei aggiungere un’ultima annotazione: se come ho indicato prima la felicità è un movimento di realizzazione di sé, la realizzazione di sé non può avvenire se non nella comunità, nel collettivo.
Crescere abolendo il mondo, divorandolo, vuol dire far crescere il deserto, come per la lupa dantesca. Invece la felicità si realizza fondamentalmente nella corrispondenza: i tedeschi hanno una parola per esprimere questo, stimmung, l’intonazione. L’iconografia della felicità è il locus amenus, con gli animali, le fiere, gli alberi… cioè la corrispondenza tra gli elementi.
Nel movimento verso l’interiorità si lavora sul soggetto perché il soggetto si perda, cioè si senta parte di un contesto allargato, per lo stesso motivo per cui la ricchezza non sta nel possesso ma nel dono, perché chi possiede vuole sempre più possedere e quindi si sente povero. L’esito del possesso è la psicologia dell’avarizia; invece chi dà, anche se ha poco, si arricchisce. Da questo punto di vista la felicità non è insegnabile come un contenuto. 
La felicità si associa alle condotte, ai comportamenti, ma anche alle idee, perché non bisogna mai separare gli esseri umani e le loro vite dalle epoche storiche: non esiste una felicità assoluta ma si è felici nel tempo in cui si è collocati, con il sistema delle credenze e delle relazioni che caratterizza quel tempo. Intendo dire che un lavoro sulla felicità esige un’analisi molto più accurata e molto più attenta di quanto non si faccia nel luogo comune dei venditori di sazietà. La sazietà non è la felicità.

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