LEOPOLDO DE MEDICI
Straordinario mecenate, collezionista ed uomo di grande cultura
MEDICI, Leopoldo de’.
– Nacque a Firenze il 6 nov. 1617, ultimogenito di Cosimo II granduca di
Toscana e di Maria Maddalena d’Austria.
Rimasto orfano di padre ad appena tre anni, la sua prima
educazione fu curata dalla madre e dalla nonna Cristina di Lorena; fu affidato
quindi allo scolopio Iacopo Soldani e a Famiano Michelini, entrambi allievi di
Galileo Galilei, dai quali ricevette un’istruzione più accurata e libera
rispetto a quella dei fratelli cadetti maggiori, Giovan Carlo, Francesco,
Mattias.
Durante il granducato del fratello, Ferdinando II, oltre a
svolgere funzioni di consigliere in materia economica e diplomatica, il M.
partecipò alla gestione ristretta e collegiale del potere avviata da Cosimo II
e che Ferdinando proseguì, concentrando l’amministrazione dello Stato nelle
mani dei familiari più stretti. Il M. ebbe un importante ruolo di governo:
ricoprì più volte la luogotenenza presiedendo il Magistrato supremo e il
Consiglio dei duecento, trattò con i ministri, subentrò al fratello Mattias nel
governatorato di Siena dal 1636 al 1641 e di nuovo nel 1643-44.
Il Medici si allontanò di rado dalla Toscana: fu a Parma nel
1639 in visita alla sorella Margherita, moglie del duca Odoardo Farnese, e
nell’occasione si spinse fino a Venezia; nel 1646 accompagnò a Innsbruck l’altra
sorella, Anna, che andava in sposa all’arciduca Ferdinando Carlo d’Asburgo; nel
1650, in compagnia del fratello Mattias, si recò a Roma in occasione del
giubileo. Con i fratelli Giovan Carlo e Mattias fu promotore di spettacoli a
Firenze: nel 1661 diresse quelli per le nozze del principe Cosimo e di
Margherita Luisa d’Orléans, alla cui organizzazione partecipò il fratello, il
cardinale Giovan Carlo.
La figura del Medici grandeggia soprattutto in ambito culturale,
in cui si distinse per l’attività di mecenate, collezionista e studioso. Nel
1638 patrocinò la riapertura dell’Accademia Platonica, destinata a non avere
seguito, e svolse un ruolo di primo piano nell’Accademia della Crusca, di cui
fu protettore. Vi fu ascritto il 17 apr. 1641 con il nome di Assonnato, mutato
in Adorno nel giugno 1643 e ancora, nel 1651-52, in quello definitivo di
Candido. La presenza accademica del M. non si limitò al mero ruolo mecenatizio.
Fu reggente delle adunanze generali del 1650 e del 1663 e consolo della colonia
di Pisa nel 1651. Per la terza impressione del Vocabolario,
pubblicata nel 1691, dopo la sua morte, fu lui a proporre di includere la
terminologia tecnica ed ebbe l’incarico di preparare le voci concernenti le
arti. Il suo cospicuo contributo emerge dalle carte custodite nell’Archivio
dell’Accademia: in particolare, elaborò un inedito sistema di inchiesta presso
i fornitori di Palazzo, mediante il quale raccolse un’ingente quantità di
vocaboli legati ai mestieri.
In Accademia il Medici fece sentire la sua voce quando i
cruscanti non riuscirono a portare a termine in tempi ragionevoli i lavori per
l’Etimologico toscano, che avrebbe dovuto
affiancare il Vocabolario. Mentre gli
accademici si attardavano nell’impresa, principiata subito dopo la
pubblicazione dell’opera maggiore nel 1612, l’erudito francese Gilles Ménage diede
alle stampe il trattato sulle Origini
della lingua italiana (Parigi 1669). I cruscanti erano al
corrente sin dal 1657 degli studi di Ménage e avevano tentato invano di farlo
recedere dal suo disegno. Alessandro Segni, inviato a Parigi nel 1666, aveva cercato
di persuaderlo a far confluire le sue ricerche nell’Etimologico,
all’interno del quale sarebbe stata conservata l’integrità del suo contributo.
Viste le lungaggini con cui procedevano i lavori in Crusca, Ménage si risolse a
pubblicare la sua opera, pur mostrandosi rispettoso dell’autorità
dell’Accademia. I cruscanti reagirono con dispetto e si attirarono l’ironia del
Medici, che rimproverò loro lo scarso impegno e il poco zelo impiegato,
nonostante la sua protezione li avesse messi nelle condizioni ideali per
lavorare.
Particolarmente intenso fu l’impegno del Medici nel rivendicare
al suo casato l’eredità scientifica galileiana. Fu parte attiva nel promuovere
e allestire la prima raccolta delle Operedi
Galileo (editi, inediti, opere dei suoi oppositori), pubblicata a Bologna nel
1655-56. Insoddisfatto dell’opera, monca dei testi colpiti dalla censura
ecclesiastica (la Lettera a Cristina di Svezia e
il Dialogo sopra i massimi sistemi del
mondo), già dal 1656 offrì sostegno al progetto di Vincenzio
Viviani di pubblicare una raccolta latino-volgare di tutte le opere del
maestro, compreso lo scritto sulla longitudine recentemente acquisito. A tale
scopo, quando era già cardinale, il Medici avviò trattative private con i
gesuiti del Collegio romano per provare a ottenere al Dialogo la revoca della
condanna, ma le trattative, proseguite da Viviani dopo la sua morte, ebbero
esito negativo. Neppure vide la luce, pertanto, la Vita
di Galileo che sarebbe dovuta comparire in testa all’opera,
alla quale Viviani aveva atteso fin dalla morte del maestro per volontà proprio
del Medici.
Nel 1657 il M. promosse l’Accademia del Cimento, che dal 19
giugno cominciò a tenere con una certa regolarità un diario di esperienze.
L’Accademia non fu un’istituzione formalizzata e strutturata secondo programmi
e statuti, ma un’adunanza informale di scienziati e tecnici aggregata dal
Medici a sua totale discrezione, da lui finanziata e itinerante con la corte.
Non ebbe luoghi e cadenze precise per le adunanze: il Medici comunicava il
giorno e il sito di volta in volta, a Firenze in palazzo Pitti, ma anche ad
Artimino o a Pisa, quando era costretto a spostarvisi. Accademia di corte, il
Cimento fu usato dal Medici come luogo di intrattenimento per gli ospiti,
«efficace strumento di “pubbliche relazioni”» (Galluzzi, 1981, p. 795), tramite
per autorevoli contatti con istituzioni consimili all’estero, mezzo per
realizzare un’opera, i Saggi di naturali esperienze (Firenze
1666), vero obiettivo dell’iniziativa.
L’Accademia fu per il Medici il più potente strumento di un preciso
programma di politica culturale che aveva il fine di «riprendere pubblicamente,
dopo la condanna di Galileo, una strategia e un’offensiva antitradizionaliste
in campo scientifico […]; rilanciare l’idea di una strettissima correlazione
tra tradizione scientifica galileiana e protezione medicea, senza correre il
rischio di aprire con la Chiesa un contenzioso che il piccolo e debole Stato
toscano non era in grado di sostenere». Le preoccupazioni legate alla censura
orientarono in maniera decisiva la fisionomia dell’Accademia e il suo
programma. Come garanzia di pluralismo, infatti, il Medici invitò a prendere
parte all’adunanza sia gli scienziati attivi in Toscana che apparivano i più
autorevoli e diretti «discepoli» di Galileo – Giovanni Alfonso Borelli, Antonio
Oliva, Vincenzio Viviani, più tardi Carlo Roberto Dati e Francesco Redi – sia
elementi di esplicite simpatie tradizionaliste – come Alessandro Marsili e
Carlo Rinaldini. Gli uni e gli altri furono chiamati a realizzare un programma
che – bandite le scottanti questioni cosmologiche, l’analisi
geometrico-matematica dei fenomeni fisici, le discussioni sui principî
costitutivi della materia – nel metodo riprendeva il legato galileiano meno
pericoloso per l’aristotelismo, il richiamo alle «sensate esperienze», allo
scopo di dimostrare per via di prova sperimentale l’insostenibilità di alcune
teorie tradizionali, soprattutto aristoteliche.
Malgrado questa «ideologia dell’esperimento» scevra da ogni
intento interpretativo, la verifica sperimentale di significativi gruppi di
fenomeni o effetti fisici – il vuoto, la natura del caldo e del freddo e le
alterazioni da essi introdotte nei fluidi, nei metalli e in altri materiali, le
cause dell’«agghiacciamento» – provocò tra novatori e tradizionalisti violente
discussioni sui principî. Discussioni che il carteggio degli accademici
documenta con chiarezza ma che risultano del tutto cancellati nella redazione
definitiva dei Saggi per la volontà
del Medici di presentare il Cimento come un’adunanza resa concorde dalla sua sovrumana
virtù di principe. Il Medici non riuscì sempre a comporre gelosie e
controversie, che portarono di fatto alla chiusura dell’Accademia con la
pubblicazione dei Saggi di naturali esperienze fatti
nell’Accademia del Cimento, raccolti dal segretario L. Magalotti e
fatti stampare dal Medici nel 1667 (Londra 1684, traduzione inglese di R.
Walter), dopo che i maggiori esponenti si erano allontanati dal consesso.
L’ultima adunanza dei soci si tenne il 5 marzo 1667 senza un atto formale di
cessazione, così come non c’era mai stata una vera cerimonia di apertura;
perciò, nelle intenzioni del Medici, l’Accademia non si doveva considerare
estinta.
Negli anni intensi del Cimento il Medici fu direttamente
impegnato negli esperimenti, si interessò al dibattito sul sistema di Saturno,
si adoperò affinché G.A. Borelli fosse autorizzato a pubblicare le Theoricae Mediceorum planetarum (Firenze
1666), carteggiò con Melchisédech Thévenot sulle proprietà dell’argento vivo,
discusse con Christiaan Huygens sull’applicazione del pendolo all’orologio,
rivendicando la priorità dell’idea a Galilei, partecipò, in stretto rapporto
con F. Redi, alla ricerca sulla generazione degli insetti delle galle, che fece
registrare una clamorosa spaccatura in seno all’Accademia.
Se attraverso il Cimento l’azione del Medici fu di sostanziale
impulso alla libertà di ricerca, egli non mostrò eguale determinazione nel
difendere la libertà intellettuale dinanzi alle polemiche che negli anni
Sessanta agitarono l’Università pisana, di cui era stato nominato responsabile.
Alla fine degli anni Sessanta, all’interno dell’ateneo pisano si
aprì un serrato confronto tra i lettori di fede aristotelica – G.A. Moniglia,
L. Terenzi e G. Maffei – e i medici e filosofi naturali aderenti al cosiddetto
«circolo pisano» – A. Marchetti, L. Bellini, C. Fracassati, G. Del Papa, ma
anche D. Rossetti – tutti idealmente allievi di Borelli e difensori, sulla
carta ed ex cathedra, di una
filosofia atomista fisica ispirata a Gassendi. Nell’estate 1670 i filosofi
«democritici», primo tra tutti Borelli, si appellarono al M., in veste di
difensore della libertas philosophandi;
nell’ottobre Marchetti gli indirizzò le Risposte
de’ filosofi ingenui e spassionati, falsamente detti democritici, alle
obiezioni e calunnie de’ peripatetici, rimaste manoscritte;
Rossetti compose il Polista fedele. I due
studiosi respingevano le accuse di ateismo prodotte dai peripatetici proponendo
un recupero della filosofia naturale atomista (Democrito, Epicureo, Lucrezio)
filtrata però in modo da escluderne le connotazioni metafisiche suscettibili di
entrare in conflitto con il dogma cattolico.
In questo contesto si inserisce la vicenda della versione del De rerum natura di
Lucrezio, a cui Marchetti aveva lavorato dal 1664 e che tentò di dare alle
stampe. Marchetti aveva trovato un protettore e giudice in Carlo Roberto Dati e
confidava anche nel sostegno del M., che lo aveva incoraggiato a intraprendere
la traduzione dell’opera. Nell’agosto 1667 inviò a Dati la traduzione dei primi
tre libri, sollecitando il giudizio dell’erudito, anche per valutare l’impatto
sull’ambiente fiorentino vicino al Medici. Il giudizio, però, tardò ad arrivare
e Marchetti tentò di coinvolgere il bibliotecario granducale A. Magliabechi, ma
senza risultati. Il Medici non solo fece mancare il suo appoggio, ma negò a
Marchetti l’assenso alla pubblicazione del Lucrezio volgare, che egli stesso
aveva incoraggiato, e lasciò che le autorità bandissero definitivamente
dall’Università di Pisa l’insegnamento «a la galileista».
La posizione ufficiale assunta dal Medici in queste circostanze
non esauriva d’altra parte la sua personale posizione in materia, a
testimonianza di un comportamento pesantemente condizionato dalla censura. Nel
1668, all’indomani della chiusura del Cimento, egli offrì protezione e appoggio
finanziario a Michelangelo Ricci e Francesco Nazari per la fondazione del primo Giornale de’ letterati di
Roma, edito da N.A. Tinassi. Nato per mettere il pubblico romano al passo con
la cultura europea e ricalcato sul modello del Journal
des sçavans e delle Philosophical
Transactions, il Giornale aveva tra le
sue linee editoriali proprio quella di «cristianizzare Democrito» e sostituirlo
all’aristotelismo come fondamento ufficiale della dottrina cattolica. Che il M.
non fosse estraneo a questo indirizzo di politica culturale lo dimostra il
fatto che il Giornale cessò le sue
pubblicazioni subito dopo la sua morte (Gardair, pp. 70 s.), essendo venuta
meno un’influente protezione, proprio nel momento in cui l’Inquisizione
imponeva un più stretto controllo sulle pubblicazioni che sostenevano
apertamente il corpuscolarismo (Favino, p. 131).
L’epilogo del Cimento, anche se non ufficiale, coincise e fu in
buona parte un effetto di un passaggio decisivo nella vita del Medici. Alla
morte del vecchio cardinale Carlo, il 17 giugno 1666, la famiglia era rimasta
senza autorevoli rappresentanti nel Collegio cardinalizio: il fratello di
Ferdinando II e del Medici, il cardinale Giovan Carlo, era morto nel 1663;
l’altro fratello, Mattias, era cagionevole di salute e morì l’11 ott. 1667.
Dunque il Medici dovette vestire la porpora e il 12 dic. 1667 fu creato
cardinale da Clemente IX nella prima creazione cardinalizia del suo
pontificato; il 9 apr. 1668 ricevette il titolo diaconale dei Ss. Cosma e
Damiano, mutato il 14 maggio 1670 in quello di S. Maria in Cosmedin.
Da cardinale il Medici tese a concentrare su di sé la gestione
degli affari ecclesiastici del Granducato, anche in materia di Inquisizione,
con una condotta più severa che nel periodo precedente. Tra le varie funzioni
che assunse in Curia fu quella di membro della congregazione dell’Indice.
A questo proposito esiste una ricca documentazione, consistente
nella corrispondenza tra il Medici e A. Magliabechi. Di grande rilievo è l’In Indicem librorum prohibitorum fr.
Vincentii Fani animadversiones Ant. Magliabechii, Romae editum
iussu Clementis X P.M., senza data. Consiste di appunti dedicati al rilevamento
degli errori materiali e bibliografici contenuti nell’Index
librorum prohibitorum Alexandri VII P.M. iussu editus, pubblicato per
cura del segretario della congregazione dell’Indice, Vincenzo Fano nel 1665 e,
in edizione aggiornata, nel 1670. Magliabechi raccoglieva appunti e li spediva
man mano al Medici con i suoi rilievi, esprimendo il dissenso per metodi
censori, che spesso erano basati su una conoscenza superficiale del testo, e su
confusioni tali da far incorrere nel divieto libri che non avevano nulla a che
fare con la religione, mentre rimanevano indenni opere contrarie alla dottrina
cattolica.
Nel lungo conclave del 1669-70, che portò al soglio il cardinale
Emilio Altieri, con il nome di Clemente X, il Medici dispiegò tutta la sua
abilità di sapiente manipolatore. Come esponente del partito filospagnolo
svolse una decisiva mediazione tra il partito guidato da Fabio Chigi e quello che
si riuniva attorno ad Antonio Barberini; il risultato fu la larga convergenza
sulla candidatura di Altieri. Intanto con l’avvento nel Granducato, il 23
maggio 1670, di Cosimo III, nipote del M., la situazione culturale subì un
cambiamento. Cosimo si mostrò da subito vicino agli aristotelici e nemico dei
novatori, tanto che nel 1691 nello Studio pisano fu sospeso ufficialmente
l’insegnamento della fisica galileiana, che di fatto era stato interrotto già
venti anni prima. Il Medici non si mise in aperto contrasto con il granduca e
assunse posizioni prudenti: prese le distanze dal fronte dei novatori, ma in
parte si trattò di un atteggiamento ufficiale che non rispecchiava fino in
fondo la realtà. Da tempo vigeva la distinzione tra ricerca e insegnamento e già
un Borelli o un Rinaldini, sotto il governo di Ferdinando II e la guida del
Medici come responsabile dello Studio pisano, erano stati lasciati liberi nelle
proprie ricerche, mentre nel loro insegnamento avevano dovuto sottomettersi ai
rigidi statuti universitari.
Nel dicembre 1674 il Medici abbracciò il sacerdozio, celebrando
la sua prima messa il giorno 21 a Firenze in S. Trinita, chiesa officiata dai
vallombrosani, della cui Congregazione egli era protettore. Da quel momento,
celebrò almeno tre giorni la settimana.
Il Medici morì a Firenze il 10 nov. 1675 e fu sepolto il giorno
seguente nella basilica di S. Lorenzo.
Di carattere riflessivo e ponderato, il M. rimase fedele per
tutta la vita alla propria indole che lo portava a trattare in modo scrupoloso
ogni impegno o negozio cui si dedicasse. Dalla corrispondenza con i familiari
emerge l’immagine di un uomo non alieno da svaghi e passatempi – la caccia, la
musica, le feste e il gioco –, ma che si dedicava a tutto ciò con equilibrio e
sobrietà.
Gli interessi culturali del Medici si estesero ad altri ambiti
oltre a quello delle scienze. Fu cultore della musica, della letteratura, della
pittura, della numismatica e del teatro. Sui suoi componimenti poetici, per la
maggior parte conservati manoscritti nell’Archivio di Stato di Firenze (Miscellanea Medicea, f. 3,
ins. 1: Poesie proprie del ser.mo card. Leopoldo),
chiedeva giudizi critici a Carlo Roberto Dati e a Lorenzo Panciatichi, i quali
non di rado intervenivano correggendo i versi del loro protettore (ibid., cc. 25-28, 35).
Per tutta l’esistenza coltivò un’istancabile e illuminata
attività collezionistica servendosi di specialisti (Marco Boschini, G.P.
Bellori, Cornelio Malvasia, Ciro Ferri, Pietro Berrettini detto Pietro da
Cortona, Baldassarre Franceschini detto il Volterrano) e di dilettanti sia
italiani sia stranieri, nonché di vari corrispondenti (Giovanni Filippo
Marucelli, Pieter Blaeu, Paolo Del Sera, Francesco Feroni). Non tralasciò
alcuna possibilità che gli permettesse di entrare in possesso di libri e di
opere pittoriche rare od originali e i suoi contatti furono occasione per
creare relazioni culturali con altri Paesi. La dimora olandese di Blaeu, per
esempio, fu utilizzata come punto di riferimento e di accoglienza dei
fiorentini inviati dal Medici e dalla corte medicea nelle Province Unite: vi
trovarono ospitalità Francesco Riccardi e Alessandro Segni, in seguito Lorenzo
Magalotti e Paolo Falconieri. Il Medici si valse sovente della preparazione in
campo artistico e della capacità di mediatore di Blaeu per sondare il mercato
d’arte olandese e fiammingo. Fu Blaeu che attirò l’attenzione del Medici sul
pittore Willem van de Velde il Vecchio, facendo arricchire la collezione
medicea di alcuni lavori dell’artista. Nel 1671 il M. inviò ad Amsterdam il suo
bibliotecario personale, il canonico L. Panciatichi, per rintracciare un
autoritratto di Palma il Vecchio, oggi conservato nel corridoio vasariano degli
Uffizi.
Un ruolo del tutto particolare nel collezionismo del M. ebbe
Filippo Baldinucci per l’acquisizione di stampe e per la sistemazione della
collezione d’opere d’arte. Baldinucci cominciò a collaborare con il M. intorno
al 1665; non si limitò alle perizie, impegnandosi in una laboriosa
classificazione, sulla base della quale venivano avviate indagini esplorative
col fine di arricchire la collezione di nuovi artisti. Per le monete e le
medaglie il Medici si servì della consulenza di esperti quali Pietro Ficton,
Francesco Gottifredi, Francesco Cameli e Leonardo Agostini; segnalazioni e
perizie gli venivano anche da Annibale Ranuzzi e Ferdinando Cospi.
Per ciò che riguarda la libreria privata, nel 1666 il M. nominò
Panciatichi bibliotecario personale, ma il compito di arricchire la sua
collezione spettava a Magliabechi, responsabile degli acquisti di libri per
tutte le raccolte medicee, a cominciare da quella dei granduchi Ferdinando II e
Cosimo III, anche se ufficialmente i bibliotecari furono rispettivamente
Francesco Rondinelli, fino alla morte nel 1665, e Alessandro Segni. La prima
testimonianza di acquisti librari da parte del Medici risale al 1638, per
tramite del residente toscano a Parigi Ferdinando Bardi. Secondo la
testimonianza di Magliabechi, la biblioteca del Medici si qualificava, insieme
con quella del granduca, come «la più copiosa per quantità, la più universale
per la varietà e la più insigne per la qualità de’ libri che qua si ha»
(lettera ad A. Aprosio, Firenze, Bibl. nazionale, Magl.,
X.63, cc. 1v-2r) anche se, aggiungeva, il Medici metteva liberalmente a
disposizione i suoi libri senza preoccuparsi di riaverli. Alla sua morte il Medici
lasciò i suoi libri in usufrutto al nipote Francesco Maria, con l’obbligo di
non smembrare la raccolta, destinata a passare nelle mani del granduca regnante
alla sua morte. Attualmente si trova, per la maggior parte, nel Fondo Magliabechiano della
Biblioteca nazionale di Firenze e, in minima parte, nella Biblioteca
universitaria di Pisa.
Il Medici fu generoso verso poeti e letterati. Molte sono le
opere pubblicate per suo interessamento: per esempio quelle del friulano Ciro
di Pers, che lo considerò suo protettore; oppure quelle di Famiano Michelini,
suo precettore, al quale finanziò la pubblicazione del Trattato della direzione de’ fiumi (Firenze
1664); infine concedette una pensione al letterato Pietro Petri. Compose e
diresse egli stesso la rappresentazione di commedie a palazzo Pitti, come
attestano lettere dei familiari. Fu protettore del sodalizio degli Adamisti,
dei Cimentati, degli Infuocati al teatro del Cocomero e forse degli Imperfetti,
ma principalmente del sodalizio degli Affinati, per i quali intorno al 1650
fece edificare un teatrino al primo piano di palazzo Medici in via Larga. Tra
le commedie recitate dagli Affinati ve ne sono alcune di Pietro Susini,
accademico apatista e prolifico commediografo, nonché aiutante di camera dello
stesso Medici. Il M., più che impresario diretto, sostituì negli incarichi i
fratelli Giovan Carlo e Mattias quando essi, avviato uno spettacolo, si
trovavano impediti dal portarlo a termine perché impegnati in affari di Stato.
Così, nel febbraio 1666, quando Mattias si trovava a Pisa, fu il Medici a
portare a termine l’allestimento di una commedia (Don
Massimiliano), in onore di Massimiliano di Baviera e rappresentata
al teatro del Cocomero. Il teatro degli Affinati fu smantellato intorno al
1660, quando palazzo Medici fu venduto al marchese Gabriello Riccardi, già
residente granducale presso la S. Sede, e si trasferì, con l’Accademia, presso
il Casino di S. Marco, dove furono allestiti altri spettacoli, e da quel
momento gli affiliati si appellarono Accademici del Casino. Protettore degli
Affiliati e del Casino di S. Marco, così come di quella degli Imperfetti dopo
la morte del Medici, divenne il nipote Francesco Maria, anch’egli appassionato
di teatro e di opera musicale.
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