Il 9 luglio del 1737 moriva Gian Gastone de’ Medici e con lui finiva la linea maschile della dinastia che da due secoli governava lo stato fiorentino e quello senese (solo con la nuova dinastia lorenese questi due stati avrebbero assunto il nome di Granducato di Toscana).
Aveva 66 anni (era nato nel 1671) e governava dal 1723, allorché era succeduto al padre Cosimo III. “Dotato di molto spirito, illuminato dalla filosofia” scrisse di lui Riguccio Galluzzi in chiusura della sua Istoria del Granducato sotto la casa Medici data alle stampe nel 1781. Ludovico Antonio Muratori, nei suoi Annali d’Italia dal principio dell’era volgare al MDCCXLIXediti nel 1750, aveva iscritto la morte dell’ultimo granduca mediceo in quella “disavventura inesplicabile dell’Italia che seguitava a perdere i suoi principi naturali”. “Gran fortuna è l’aver i principi propri”, chiosava, infatti, il Muratori ricordando la scomparsa dalla scena politica italiana, nei primi decenni del Settecento, dei Farnese, dei Gonzaga e appunto dei Medici. E così continuava: “L’averli anche difettosi meglio è, regolarmente, che il non averne alcuno, giacché lo stesso è l’averli lontani”. Il riferimento poco pietoso ai principi “difettosi” era a Gian Gastone e alla sua incapacità – o per meglio dire: rifiuto – ad avere un erede dalla principessa Anna Maria Franzisca de Saxe Lavemburg, che il padre Cosimo III gli aveva imposto di sposare nel 1697 e che, nel 1708, Gian Gastone abbandonò nella sua residenza boema, per fare ritorno a Firenze. Anche il Galluzzi, nella sua Istoria, non mancava di ricordare, insieme alle qualità, i “vizj” del principe, alludendo al legame che strinse negli ultimi anni della sua vita – “allorché la sua salute divenne incerta e la debolezza della sua macchina l’obbligò a un lungo decubito e a star ristretto nella sua camera” – ad un gruppo di giovani servitori, i cosiddetti “ruspanti”, e tra questi in primo luogo a Giuliano Dami. Se è vero che i “vizj” del principe furono amplificati dagli avversari della condotta del granduca e da quanti avevano in animo una diversa soluzione della crisi dinastica medicea, è vero però che la corte di Gian Gastone non brillava certo per accortezza politica e per la morigeratezza dei costumi, in stridente opposizione al clima e ai valori della corte del padre, il religiosissimo granduca Cosimo III, o della sorella Anna Maria Luisa, vedova dell’Elettore Palatino, che non a caso preferì risiedere alle Montalve piuttosto che nella reggia di Pitti.
Certo è che a Pitti, alla corte di Gian Gastone, rilevante fu il ruolo del suo favorito, Giuliano Dami. Giovane di rara bellezza, era stato “donato” dal marchese Capponi al giovane principe Gian Gastone, che lo aveva portato con sé in Boemia presso la residenza della moglie. Al ritorno del principe a Firenze, il Dami divenne suo assiduo compagno, influenzando sempre più il principe negli anni in cui resse le sorti dello stato. Molto si scrisse, dopo la morte del principe e l’arrivo della nuova dinastia lorenese, dei rapporti tra Gian Gastone e i giovani “ruspanti”, così chiamati perché remunerati per i loro servizi sessuali con le monete piccole, i ruspi; e soprattutto molto si scrisse del Dami, cui dedicò molte pagine un anonimo manoscritto di poco posteriore alla morte di Gian Gastone (Ristretto di alcune vite di Principi e Principesse della Real Casa de’ Medici Granduchi di Toscana fino all’ultimo superstite di tal famiglia con una breve digressione della vita, origine e progressi di Giuliano Dami, favorito di Gio: Gastone:I: in ultimo la distinta nota dei ruspanti e ruspante tanto noti, che occulti). Di vero c’è che il Dami, pur nascendo di umile condizione, nel 1735 comprava un palazzo (attuale via Maggio 38) ricavato da un’antica torre del XIII secolo, affidandone l’ammodernamento agli architetti Ferdinando Ruggieri e Gioacchino Fortini. Di particolare gusto furono la realizzazione e la decorazione della galleria del piano nobile, affrescata da Niccolò Pintucci.
Ma al di là di queste vicende, che, comunque, segnarono in termini negativi l’immagine che fu costruita, già all’indomani della morte di Gian Gastone, del principato dell’ultimo Medici, resta il dramma di un principe e di uno stato, costretti a rinunciare alla propria indipendenza e autonomia di fronte alle pressioni delle grandi dinastie e potenze europee – e in primo luogo la Francia dei Borboni e gli Asburgo d’Austria – , pronte a utilizzare l’estinzione della famiglia dei Medici per la definizione dei loro rapporti di forza nel contesto di un nuovo equilibrio europeo.
Il 9 luglio 1737 con la morte di Gian Gastone si chiudeva, infatti, quel “poema dell’Ariosto” – lo scriveva Antonio Niccolini, esponente di punta del patriziato fiorentino – che era stata la definizione della successione alla dinastia medicea: “che a ogni canto si crede essere alla fine e si è sempre da capo”. Di certo, la questione della successione agli stati medicei non poteva non attirare l’attenzione delle grandi potenze.
sEra stato Leibniz, il celebre filosofo, postosi da tempo al servizio degli Asburgo di Vienna, a sollecitare per primo, nel 1713, l’imperatore Carlo VI a rivendicare il diritto di devoluzione all’Impero degli stati medicei. L’insediamento a Firenze di Alessandro, primo duca della dinastia medicea, era stato opera, argomentava Leibniz, di Carlo V. All’estinzione della dinastia medicea, l’Imperatore avrebbe, dunque, dovuto riprendere il possesso di questi stati. A sua volta, il patriziato fiorentino già dal 1710 aveva preso posizione, per voce di alcuni suoi prestigiosi esponenti, a favore della restaurazione della repubblica oligarchica. Difficile e contraddittoria si rivelava in quegli stessi anni la politica della dinastia medicea. Morto, nel 1710, il primogenito di Cosimo III, il gran principe di Toscana Ferdinando; senza eredi il matrimonio del fratello del granduca, il principe Francesco Maria, che aveva lasciato in tutta fretta il cappello cardinalizio per sposare la giovane Eleonora Gonzaga; nessuna speranza che questi potessero venire dal matrimonio di Gian Gastone. Il vecchio granduca Cosimo III, dopo qualche manifestazione di simpatia per la restaurazione della Repubblica, s’impegnava allora a garantire la successione del granducato alla figlia Anna Maria Luisa.
È difficile seguire il succedersi degli scontri, delle trattative, degli accordi siglati e poi rinnegati che fanno la storia della successione medicea. Ma al di là di ciò resta la rilevanza del dibattito che si accese all’interno dell’élite fiorentina sulle sorti degli stati medicei e che ben presto si allargò ad una riflessione di grande significato culturale sulla politica, sulle istituzioni e più in generale sul potere. La questione, infatti, della difesa della “libertà” fiorentina, da motivo polemico della diplomazia medicea contro la pretesa delle grandi potenze di disporre a loro piacimento degli stati medicei, si tradusse in una riflessione sulle origini e la costituzione della società politica, ricca di echi forti del contrattualismo e delgiusnaturalismo e pronta a trovare nell’esaltazione del passato etrusco e del primato linguistico fiorentino o ancora nella storia del passaggio dalla Repubblica al principato motivi forti a sostegno dell’autonomia dello stato. In questo contesto vanno, quindi, riportati molti momenti significativi della vita culturale di questi decenni: dalla ristampa del celebre testo seicentesco del Dempster – De Etruria regali – alla fondazione dell’Accademia Etrusca di Cortona, alla pubblicazione – e si tratta della prima edizione a stampa – delle storie delVarchi, del Segni e del Nerli, alla IV edizione del Vocabolario della Crusca, alla messa in opera a cura di una società guidata dalla famiglia Corsini del Museum Florentinum, affidato alle cure di Anton Francesco Gori, all’apertura nell’università di Pisa – ed è il primo caso in un paese cattolico – di un insegnamento di diritto delle genti.
Alla metà degli anni trenta, comunque, nell’ambito delle trattative per la soluzione dellaguerra di successione polacca (1733-1738), le potenze europee decidevano che la successione della Toscana sarebbe toccata al duca di Lorena Francesco Stefano, marito dell’arciduchessa ed erede dei domini asburgici Maria Teresa.
La decisione rovesciava quanto era stato stabilito all’inizio degli anni trenta, a favore del figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, don Carlos, il quale dal 1731 era arrivato a Firenze e dal 1734 aveva sottratto agli Asburgo i regni di Napoli e di Sicilia. Per Gian Gastone, sempre più lontano dagli affari di governo, si trattava di accettare il “nuovo figlio” che le potenze gli avevano dato; non così per il ceto di governo fiorentino, che aveva trovato una sorta di accordo con Filippo V e don Carlos, sulla base di un sostanziale mantenimento degli assetti istituzionali e politici consolidati. Il nuovo Granduca lorenese invece – questo il timore del patriziato fiorentino – non avrebbe avuto alcun motivo per rispettare un analogo accordo: le tradizioni di governo della dinastia e soprattutto il destino del futuro Granduca, che avrebbe retto con Maria Teresa i domini asburgici e sarebbe stato eletto al Sacro Romano Impero, facevano prevedere che Francesco Stefano non avrebbe avuto alcuna necessità di rassicurare il tradizionale ceto di governo del Granducato. Insomma l’arrivo in Toscana, già nel gennaio del 1737, ancora vivo Gian Gastone, di un esercito imperiale e del principe di Craon, inviato di Francesco Stefano di Lorena, non lasciava presagire nulla di buono ai patrizi fiorentini. L’atteggiamento poi del conte Emmanuel Nay di Richecourt, stretto collaboratore del nuovo Granduca, arrivato a Firenze qualche mese dopo la morte di Gian Gastone, avrebbe dato concrete prove della volontà del “Padrone” lorenese di non usare alcun riguardo per i complessi equilibri sui quali si era retto per circa due secoli il principato mediceo.
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