mercoledì 24 dicembre 2014


Buddismo e Società n.92 - maggio giugno 2002
Saggi
Sette sentieri per l'armonia globale
La strada del dialogo e della tolleranza
di Daisaku Ikeda

http://www.sgi-italia.org/foto/riviste/BS/2002/92settesentieri.jpg 
L’apertura creativa nei confronti degli altri, che conduce alla comprensione e alla solidarietà, è la chiave di volta per ottenere la pace, mentre l’assenza di pensiero critico porta solo a fanatismo e intolleranza. In questo scritto, che corrisponde al terzo capitolo del volume For the Sake of Peace, Daisaku Ikeda rintraccia tale modo di vedere, centrale nella tradizione buddista, in pensatori diversi della cultura occidentale, nel corso dei secoli. 

Il radicalismo, per sua stessa natura, è destinato a fare ricorso alla violenza e al terrore, mentre l’arma più potente del gradualismo, il suo opposto, è il dialogo. Secondo Socrate il dialogo è una lotta verbale in cui non è ammissibile la ritirata; ne era così fortemente coinvolto da non temere neppure la morte. Per portare avanti un dialogo di questo tipo occorrono risorse di energia e forza spirituale ben maggiori e ben più profonde di quelle possedute da coloro che ricorrono facilmente alla violenza.
I veri semi della pace non sono fatti di nobili ideali ma di comprensione e solidarietà umana. Solo nello spazio aperto del dialogo con i propri vicini, con la storia, la natura o l’universo l’essere umano può svilupparsi completamente. Un individuo disimpegnato, chiuso nel suo silenzio, può arrivare solo al suicidio spirituale. Non si nasce umani, se non in senso biologico; noi “impariamo” a conoscere noi stessi e gli altri, apprendendo così le modalità di comportamento da esseri umani. E possiamo farlo soltanto immergendoci nell’oceano del linguaggio e del dialogo, alimentato dalle sorgenti della tradizione culturale.
Mi sovviene nuovamente quel brano splendido e toccante del Fedone in cui Platone descrive Socrate che insegna ai suoi giovani discepoli come l’avversione per il linguaggio e le idee conduca all’antipatia per l’umanità. La sfiducia nel linguaggio o una fede eccessiva nel suo potere dipendono entrambe dalla fragilità spirituale, che rende incapaci di reggere la tensione della vicinanza umana indotta dal dialogo. Questa sorta di debolezza spirituale fa oscillare tra fiducia gratuita e sospetto degli altri, rendendo così l’individuo preda di forze disgregatrici.
I nostri sforzi di dialogare, perché siano degni di essere chiamati dialogo, devono essere portati fino in fondo. Rifiutare lo scambio pacifico e scegliere di usare la forza significa venire a compromessi con la debolezza umana, cedere a essa. Significa ammettere la sconfitta dello spirito. Socrate incoraggia i suoi giovani discepoli ad allenarsi e rafforzarsi spiritualmente, a conservare la speranza e il dominio di sé, ad avanzare coraggiosamente, a preferire la virtù alla ricchezza materiale e la verità alla fama.
Non è possibile analizzare la moderna società di massa secondo i valori degli antichi greci, ma non è neanche il caso di enfatizzarne eccessivamente le differenze. Walter Lippmann, uno dei più grandi giornalisti del XX secolo, nel suo famoso saggio L’opinione pubblicaindica ripetutamente il dialogo socratico e gli individui “socratici” come strumenti chiave per una più sana formazione di una pubblica opinione. Un’educazione basata sul dialogo aperto è ben più di un mero passaggio di informazioni e conoscenze. Ci permette di sollevarci oltre i confini delle nostre anguste prospettive e passioni di parte. Le istituzioni preposte a un’educazione più elevata hanno il compito di favorire la crescita di cittadini del mondo di tipo socratico e di ricercare nuovi princìpi per una pacifica integrazione dell’umanità.

Il Buddismo e il potere del dialogo
Il Budda Shakyamuni, che viene spesso menzionato insieme a Socrate come uno dei più grandi insegnanti del mondo, trascorse i suoi ultimi momenti di vita esortando i discepoli addolorati a dialogare con lui. Fino all’ultimo istante li esortò a interrogarlo su questo o quell’argomento, come se stessero parlando con un amico.
Sin dagli albori la filosofia buddista è sempre stata associata alla pace e al pacifismo. Tale caratteristica deriva principalmente da un coerente rifiuto della violenza e dal considerare il dialogo e la discussione come i migliori mezzi per risolvere i conflitti. La vita di Shakyamuni, totalmente libera dalle pastoie del dogmatismo, e i rapporti con i suoi compagni evidenziano quanto egli ritenesse importante il dialogo. Il sutra che narra i viaggi in cui culminò la sua pratica buddista inizia con un episodio nel quale l’anziano Shakyamuni usa il potere del linguaggio per impedire un’invasione. Il Budda, allora ottantenne, invece di ammonire in maniera diretta il ministro del Magadha, intenzionato a conquistare lo Stato confinante di Vaji, gli parlò invece in maniera convincente dei princìpi che governano la prosperità e il declino di una nazione. Il suo discorso dissuase il ministro dallo sferrare l’attacco previsto. L’ultimo capitolo dello stesso sutra si conclude con una toccante descrizione di Shakyamuni sul letto di morte. Mentre giaceva morente, esortava ripetutamente i discepoli a esporre qualsiasi incertezza potessero avere riguardo alla Legge buddista (Dharma) o alla sua pratica, in modo che dopo la sua morte non dovessero rammaricarsi per qualche domanda inespressa.
Fino all’ultimo, Shakyamuni ricercò attivamente il dialogo e il dramma del suo viaggio finale è illuminato dall’inizio alla fine dalla luce del linguaggio, usato con perizia da questo vero “maestro della parola”1.

Attaccamento alle differenze
Come mai Shakyamuni riusciva a usare il linguaggio con tanta disinvoltura ed efficacia? Cosa faceva di lui un maestro di dialogo senza eguali? Penso che la sua eloquenza fosse dovuta alla vastità della sua condizione illuminata, assolutamente libera da dogmi, pregiudizi e attaccamenti. Un esempio è la sua frase: «Percepii un’unica invisibile freccia che trafigge il cuore delle persone».2 La freccia simboleggia uno stato d’animo incline al pregiudizio, che enfatizza senza motivo le differenze individuali. L’India di allora attraversava una fase di trasformazione e di agitazioni sociali e gli orrori del conflitto e della guerra erano all’ordine del giorno. Lo sguardo penetrante di Shakyamuni percepì con chiarezza che la causa profonda del conflitto era l’attaccamento alle distinzioni, alle differenze etniche, nazionali o d’altro tipo.
Agli inizi del XX secolo, il filosofo Josiah Royce affermò: «In simili questioni, se riforma ci dev’essere, deve venire dal di dentro... La sfera pubblica viene determinata dai processi che, nel bene o nel male, accadono nelle singole menti».3
Come evidenzia Royce, la “freccia invisibile” del male non consiste nell’esistenza di razze o classi, ma si trova nei nostri cuori. Vincere sui pregiudizi e sull’attaccamento alle differenze è la precondizione indispensabile per un dialogo aperto. Quest’ultimo a sua volta è fondamento essenziale della pace e del rispetto universale per i diritti umani. La totale assenza di pregiudizi di Shakyamuni gli permise di esporre la Legge con la massima libertà, adattando il modo d’insegnare al carattere e alle capacità della persona a cui stava parlando.
Sia che stesse facendo da mediatore in una disputa sui diritti di approvvigionamento idrico, che stesse convertendo un violento criminale o ammonendo qualcuno che si rifiutava di praticare la questua, Shakyamuni cercava sempre anzitutto di rendere l’altro consapevole della freccia del proprio male interiore. Il potere della sua straordinaria personalità fece dire a un sovrano suo contemporaneo: «Coloro che non riusciamo a indurre alla resa con la forza delle armi, voi sapete sottomettere disarmato».4
Il potere della parola è lo strumento primario di un “campione dello spirito”. Il linguaggio, che per lungo tempo è stato considerato l’unico tratto che distingue nettamente gli esseri umani dagli altri animali, spesso è stato il fattore decisivo per la vittoria. La storia è piena di sanguinose battaglie fra popoli asserviti al potere della brutalità, dell’autorità e del denaro. Ma anche nel panorama spoglio e desolato del conflitto e dell’uccisione emergono alcuni esempi nei quali il potere della parola ha portato alla vittoria. Uno dei più evidenti è la rivoluzione americana, senza la quale la democrazia negli Stati Uniti sarebbe stata impossibile. In quel caso le capacità di autocontrollo, equilibrio e autodeterminazione, che io ritengo indispensabili per uno spirito che vuole manifestare il bene, produssero tendenze diverse da quelle riscontrabili nella rivoluzione francese e in quella russa.

La parola e la rivoluzione
Alla vigilia e nelle fasi iniziali di tutte le principali rivoluzioni moderne _ americana, francese e russa _ la parola fu utilizzata per divulgare la causa. Ne I dieci giorni che sconvolsero il mondo, lo stupefacente reportage della rivoluzione russa, il giornalista americano John Reed descrive vividamente questo fenomeno: «Tutta la Russia stava imparando a leggere eleggeva di politica, economia, storia, perché la gente voleva sapere… In ogni città e nella maggior parte dei paesi lungo il fronte ogni fazione politica aveva il suo giornale, a volte anche più d’uno. Centinaia di migliaia di opuscoli venivano distribuiti da migliaia di organizzazioni e si diffondevano negli eserciti, nei villaggi, nelle fabbriche e per le strade. La sete di istruzione, così a lungo frustrata, fremeva per essere espressa nella rivoluzione. Soltanto dall’Istituto Smolny nei primi sei mesi uscirono ogni giorno tonnellate di materiale da leggere che saturarono il paese. La Russia assorbiva carta stampata in maniera insaziabile, come la sabbia rovente beve l’acqua. E non si trattava di fiabe, di falsi resoconti storici, di religione annacquata o di quella narrativa a buon mercato che involgarisce lo spirito, ma di teorie economiche e sociali, filosofia, opere di Tolstoj, Gogol, Gorky…»5.
Questo brano è una brillante descrizione di come l’energia in un popolo aumenti una volta riacquisita l’arma della parola. Qualcosa di simile accadde nelle prime fasi della rivoluzione francese. Ma purtroppo, in entrambi i casi, la violenza degli eventi successivi travolse senza pietà quell’energia, e alla libertà di parola si sostituirono la tirannia e il terrore. Le persone furono costrette al silenzio e lo spirito fu sconfitto.
In America invece, come spiega lo storico francese Alexis de Tocqueville nella sua classica analisi, le assemblee cittadine che caratterizzarono gli inizi del New England furono la culla della democrazia di base. Al tempo della rivoluzione americana le energie della cittadinanza erano dirette sia verso il presente, sotto forma di lotta per l’indipendenza, sia verso il futuro, alla ricerca di un ordine politico indipendente. L’energia della liberazione era allo stesso tempo energia costruttiva. Ne è prova il fatto che, durante la lotta per affrancarsi dall’Inghilterra, tutte le tredici colonie originali compilarono la propria costituzione. O che, nello stesso periodo, lo Stato della Virginia stava redigendo il Decreto sui diritti della Virginia, che è rimasto un modello nel suo genere.

Le parole e lo “spirito astratto”
Ma le parole possono essere scisse dalla loro funzione comunicativa, il dialogo, e la loro forza può essere utilizzata in maniera distorta per giustificare una causa inumana. Questo accade quando si fa l’errore di collocare l’ideologia al di sopra della realtà di ogni singola persona, sacrificando vite umane allo “spirito astratto”. Osserva ancora acutamente Gabriel Marcel: «Quando qualcuno – lo Stato, un partito, una fazione o una setta religiosa – pretende di convincermi che quello che sto commettendo è un atto di guerra nei confronti di altre persone che devo esser pronto ad annientare, è assolutamente necessario che io non sia più consapevole dell’esistenza individuale dell’essere che sto cercando di sottomettere. Per trasformarlo in capro espiatorio è indispensabile che lo converta in un’astrazione: il comunista, il fascista, l’antifascista e così via…»6.
È un’argomentazione plausibile. In guerra o in altre circostanze non è così facile indurre a usare la violenza nei confronti di altri esseri di cui si percepiscono l’esistenza concreta e personale. Ciò vale in maniera particolare tra persone che si conoscono bene o che vivono vicine.

Pregiudizi e stereotipi
Per motivare le persone alla guerra bisogna mascherare l’astrazione _ il Nemico _ con un costume ben riconoscibile: lo stereotipo. Walter Lippmann fa un’analisi incisiva di come la credenza conduca facilmente, attraverso lo stereotipo, a una percezione distorta del mondo intorno a noi. Lippmann si guadagnava da vivere facendo il giornalista, una professione che Marcel disprezzava per il suo «effetto… quasi invariabilmente corruttore». L’opinione pubblica di Lippmann è un’opera coscienziosa, uno sforzo autocritico di evidenziare le ragioni più profonde del malessere che ha afflitto la civiltà del XX secolo.
«Se non stiamo estremamente attenti, rischiamo di visualizzare sempre le cose che ci sembrano familiari secondo l’immagine che già abbiamo in mente» osserva Lippmann e prosegue affermando: «Eccetto quando facciamo uno sforzo cosciente per sospendere i pregiudizi, noi non studiamo una persona e la giudichiamo cattiva. Noi vediamo una persona cattiva. Vediamo un rugiadoso mattino, una fanciulla che arrossisce, un prete santo, un inglese privo di senso dell’umorismo, un pericoloso Rosso, uno spensieratobohemienne, un pigro indù, un orientale furbo, uno slavo sognatore, un irlandese volubile, un ebreo avaro e un americano “cento per cento”».7
Per Lippmann questi stereotipi corrompono l’opinione pubblica sin dal principio. Come il nazionalismo, anche l’opinione pubblica può essere considerata un riflesso della volontà popolare; tuttavia in molti casi le persone vengono suggestionate da slogan basati su stereotipi e indotte a commettere atti di violenza incontrollata, impensabili in circostanze normali. Secondo Lippmann, l’opinione pubblica nella società di massa è caratterizzata dal fatto che gli stereotipi rendono l’individuo «dogmatico, perché quello in cui crede diventa un mito assoluto».
Ideologie come il comunismo hanno prodotto una stupefacente quantità di individui dogmatici, superficiali, intolleranti e fanatici. È impossibile dialogare veramente con persone intolleranti o di mentalità ristretta. Fin quando rimangono chiuse nei propri miti, per quanto possano chiacchierare anzi più prolisse e pompose sono peggio è _ non riusciranno a condurre un dialogo ma faranno solo monologhi.

La ribellione delle masse
Quando si parla di teoria della società di massa nel XX secolo non si può dimenticare José Ortega y Gasset, al posto d’onore per la sua pionieristica analisi filosofica. Alcuni sono convinti che la sua opera principale, La ribellione delle masse, abbia rivestito per il XX secolo lo stesso significato che Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau ebbe per il XVIII o Il capitale di Karl Marx per il XIX. Dall’alto del suo nobile spirito, Ortega y Gasset concentra le sue straordinarie capacità critiche sull’analisi di quel fenomeno peculiare del XX secolo che è l’ascesa delle masse. E a più di mezzo secolo di distanza la sua opera è ancora colma di preziosi spunti di riflessione per l’età contemporanea.
Anche Ortega y Gasset attribuiva grande importanza al dialogo come fattore centrale nella creazione di cultura. Tuttavia non è possibile avviare un dialogo senza regole fisse che ci guidino. Sono proprio queste regole condivise che costituiscono il principio su cui si basa la cultura.
«Allorché mancano tutte queste cose non c’è cultura; c’è, nel senso più rigoroso della parola, barbarie. E questo – non facciamoci illusioni – è proprio quello che comincia ad accadere in Europa, sotto la progressiva ribellione delle masse».8
La parola “masse”, come viene usata qui, non si riferisce a un particolare strato sociale. L’“uomo-massa” di Ortega y Gasset è un nuovo genere di essere umano che egli chiama “nuovo Adamo” o “bambino viziato”. La struttura del suo spirito è costituita da due caratteristiche fondamentali: l’“ermetismo”, che deriva dall’ebbrezza di soddisfazione di sé e da un superficiale senso di vittoria, e l’“indocilità”, che gli consente di fare ciò che vuole, incurante di regole o norme. Nel seguente brano viene analizzata la mentalità dell’uomo-massa: «Questo appagamento di sé lo porta a chiudersi a ogni istanza esterna, a non ascoltare, a non mettere sulla bilancia del giudizio le proprie opinioni e a non far conto degli altri. La sua sensazione intima di dominio lo stimola costantemente a esercitare un’azione di predominio. Agirà, quindi, come se soltanto lui e i suoi consimili esistessero al mondo…».9
È veramente il ritratto di una persona schiava di una mentalità chiusa, una condizione che genera a sua volta i mali della civiltà che abbiamo appena discusso: l’assenza di pensiero critico che conduce al fanatismo e all’intolleranza.
Gabriel Marcel, Walter Lippmann e José Ortega y Gasset erano contemporanei e i loro scritti esprimono la stessa profonda preoccupazione per il fatto che la chiusura mentale priva le persone della capacità di dialogare con gli altri, capacità che è la prova stessa della nostra umanità; e considerano questa come la causa dei gravi mali che osservavano intorno a loro.
Quest’impulso esclusivista ha afflitto la società umana sin dall’alba della storia. Il filosofo Henri Bergson lo definiva criticamente come la tendenza verso una “società chiusa” e in tempi più recenti il saggista americano Norman Cousins lo chiama “coscienza tribale”. In una società chiusa va tutto bene finché si rimane all’interno del gruppo, ma appena si entra in contatto con altre culture e società i membri si autorecludono e rifiutano di partecipare proprio a quel dibattito che sarebbe la dimostrazione della loro umanità. E alla fine ricorrono alla violenza. Quando due culture s’incontrano e una di loro o entrambe non sono capaci di tollerare la cultura o il modo di vivere dell’altra, basta solo che gli attriti crescano oltre una certa soglia per provocare uno scontro frontale.
Superare l’attaccamento negativo alle differenze, o discriminazione, e determinare una vera fioritura della diversità umana sono le chiavi per generare una cultura di pace duratura. E il dialogo è il mezzo per acquisire questa tolleranza attiva.

Montaigne e la tolleranza
Parlando di tolleranza non si può evitare di menzionare Montaigne. Il grande filosofo, fermo assertore dell’importanza del dialogo, ripeteva spesso che la discussione è il miglior mezzo per abbattere le differenze fra individui, per stimolare la crescita personale e il senso di disciplina di ognuno.
Montaigne visse nel XVI secolo in Francia, dove le dispute religiose causarono tragedie a ripetizione, come il massacro di San Bartolomeo nel 1572 durante le guerre degli Ugonotti. Nei suoi Saggi fa notare che lo zelo abbonda quando si tratta di mettere in pratica le nostre disposizioni all’odio, alla crudeltà, all’ambizione, all’avarizia, alla critica o alla ribellione, mentre scarseggia facilmente quando cerchiamo di essere buoni, gentili ed equilibrati. E deplora anche il fatto che la religione, che dovrebbe sradicare il vizio, in realtà spesso provoca, incoraggia o aggrava il male. Vivendo in mezzo ai tumulti religiosi e avendo spesso assistito a omicidi indotti da una fede fanatica o dalla ricerca di vantaggi personali, Montaigne esortava alla tolleranza per far cessare le dispute. Dopo la sua morte, la sua dottrina fu inclusa nell’Editto di Nantes (1598), che riconosceva agli eretici il diritto di praticare liberamente le proprie convinzioni religiose. Inoltre il suo resoconto delle attività dei cristiani che avevano fondato colonie oltremare, della loro brutalità e delle azioni da loro commesse, ben più immorali degli indigeni idolatri che avevano incontrato, contribuì a promuovere quello che adesso si chiamerebbe relativismo religioso. Viene spesso sottolineato che le osservazioni di Montaigne sconvolsero i cristiani di buona volontà del suo tempo, inducendo molti di loro a riflettere su se stessi. Lo scrittore austriaco Stefan Zweig ha espresso con vigore il suo assenso al pensiero di Montaigne, affermando che era l’amico di tutte le persone libere.
Montaigne, in quei tempi difficili e turbolenti, attribuiva la massima importanza al dialogo. Riteneva che «la conversazione fosse l’esercizio più fruttuoso e naturale per le nostre menti, e la sua pratica la cosa più piacevole di qualsiasi altra al mondo». Come condizione assoluta per la conversazione egli indicava una mente aperta e dichiarava: «Nessuna asserzione mi sorprende, nessuna credenza mi offende per quanto possano essere opposte alle mie. Non c’è fantasia, per frivola o stravagante che sia, che non mi paia un naturale prodotto della mente umana». E affermava inoltre: «Perciò le opinioni che mi contraddicono non mi offendono né mi allontanano, sono solo uno stimolo a esercitare la mia mente. Noi rifuggiamo dal venire corretti e invece dovremmo ricercare la correzione ed esporci a essa, specialmente quando accade nel corso di una discussione e non di una lezione scolastica».10
Montaigne prendeva alla lettera l’asserzione di Cicerone secondo cui senza confutazione non vi può essere dibattito, e andava oltre affermando che lo scopo del dialogo è la ricerca della verità. «Do il benvenuto alla verità e l’abbraccio, indipendentemente dalle mani in cui la trovo. Mi arrendo volentieri a essa e appena la scorgo in lontananza rassegno a essa le mie armi sconfitte».11 Sono i sentimenti di un vero re dello spirito, un brillante esempio di grande integrità applicata alla libera discussione.
Vorrei aggiungere inoltre che per dialogare è indispensabile anche un vivace spirito critico. All’epoca di Montaigne, la disputa tra Protestantesimo e Cattolicesimo lacerò la società francese. Ci furono reiterati massacri da entrambe le parti, ma in mezzo a quella follia Montaigne riuscì a vivere secondo le proprie convinzioni. Il suo spirito indomito viene descritto nella biografia critica di Zweig: «Pochi uomini sulla terra hanno combattuto con più sincerità e veemenza affinché il loro sé più profondo, la loro essenza, non fosse contaminata dalle insulsaggini velenose e oscure dei loro tempi e ben pochi uomini sono riusciti a salvare il proprio sé più profondo dai tempi».12
Lo stesso Montaigne disse che era inutile mettersi a dialogare con persone le cui opinioni non erano sostenute dalla razionalità e dal senso critico. Egli non vedeva il senso di discutere con persone indisciplinate o instabili nelle proprie convinzioni. E affermò anche che pensare in termini critici comprende anche la capacità di fare un severo esame di coscienza.

L’approccio buddista al dialogo
Il vero dialogo è possibile solo quando entrambe le parti si impegnano a mantenere l’autocontrollo. Ma c’è un altro elemento essenziale senza il quale il dialogo diventa retorica manipolatoria: una rispettosa compassione dell’altro, per quanto possa essere culturalmente diverso da noi o sostenga interessi apparentemente opposti ai nostri. L’approccio buddista può, a mio avviso, spezzare i vincoli dei concetti astratti e del linguaggio che possono essere tanto distruttivi. Così liberati possiamo usare il linguaggio con la massima efficacia e intraprendere quel tipo di dialogo che crea il valore più grande e durevole. Il dialogo dev’essere il perno delle nostre attività, deve raggiungere tutte le persone, ovunque esse si trovino, per forgiare una nuova civiltà globale.
Nichiren aveva una fiducia assoluta nel potere del linguaggio. Se più persone ricercassero il dialogo con la stessa incrollabile tenacia, gli inevitabili conflitti inerenti alla vita umana troverebbero di certo una più facile soluzione. Il pregiudizio cederebbe il passo alla solidarietà e la guerra lascerebbe il campo alla pace. Il dialogo autentico produce la trasformazione dei punti di vista contrastanti da cunei che allontanano le persone a ponti che le uniscono.
Le qualità umane necessarie a mettere in pratica questo principio travalicano l’ambito della mera diplomazia; è un compito che richiede un’elevata condizione vitale. Il Bodhisattva della Terra descritto dal Sutra del Loto è una persona che si dedica a ristabilire un senso di armonia cosmica nella società contemporanea. In pratica ciò significa essere un maestro nell’arte del dialogo e un portabandiera del potere morbido. Il Sutra del Loto riassume le caratteristiche che questi bodhisattva devono possedere:
Con salda forza di volontà
e concentrazione,
ricercano la saggezza
con costanza e diligenza,
espongono
varie dottrine meravigliose
e le loro menti sono libere
dalla paura.
13
Abili nel rispondere a difficili domande,
le loro menti non conoscono
la paura.
Hanno coltivato con assiduità
la perseveranza,
sono fieri di dignità e di virtù.1
4
La paura erige barriere di avversione e discriminazione sotto forma di confini nazionali o di esclusione e discriminazione in base alla razza, alla religione, al genere, alla classe sociale, alle condizioni economiche o semplicemente alle preferenze personali. Come fece notare Lippmann, per sostenere e dissimulare i propri pregiudizi le persone dalla mente chiusa spesso riducono gli altri a stereotipi. È un atteggiamento che riflette un’indolenza mentale che impedisce di coltivare la comprensione e la fiducia reciproca e di sviluppare la perseveranza e la determinazione necessaria a poter dialogare. Come la storia ci insegna, dalla pigrizia mentale alla violenza il passo è breve. Perciò, nel lodare i Bodhisattva della Terra per la loro totale assenza di paura, il sutra sta elogiandone gli sforzi per trascendere ogni barriera discriminatoria e la prontezza a lanciarsi nel dialogo senza esitare. Il tono di questo dialogo sarà adeguato, di volta in volta, ai bisogni e agli umori del momento. A volte le loro parole saranno simili a una brezza risanatrice, a volte a colpi sonori, a volte saranno come un suono di campane che risveglia e a volte come una spada che spezza le illusioni. I loro sforzi nel dialogo sono sostenuti dalla ferma convinzione nell’eguaglianza ditutte le persone, cioè nel fatto che ognuna possiede il potenziale per l’Illuminazione.
È una profonda fede nell’umanità che ispira i Bodhisattva della Terra a dedicarsi costantemente al dialogo, nel tentativo di trovare un terreno comune e di armonizzare prospettive differenti.
Tre sono gli aspetti che riassumono la personalità e la mentalità dei Bodhisattva della Terra:
– la loro inflessibile severità con se stessi, come il freddo secco dell’inverno;
– il calore e la capacità di abbracciare gli altri come una dolce brezza primaverile;
– la capacità di affrontare il male senza compromessi, come un re leone.
Solo chi possiede queste caratteristiche può essere un vero maestro del dialogo. Il bodhisattva promette di salvare gli altri e basa ogni sua azione su questa promessa, che è un’espressione spontanea di altruismo. Non è un semplice desiderio o una decisione espressa, ma un impegno definitivo al quale il bodhisattva dedica tutto se stesso. Il bodhisattva rifiuta di farsi dissuadere o scoraggiare dalle difficoltà intrinseche in questa sfida. Il Sutra del Loto parla del puro fiore di loto che sorge dalle acque dello stagno fangoso. Questa analogia illustra l’ottenimento di uno stato vitale puro e possente in mezzo alle realtà a volte degradanti della società umana. Il bodhisattva non cerca mai di evadere dalla realtà, né rinuncia a salvare coloro che soffrono; si butta a capofitto nelle acque tempestose della vita per aiutare ogni persona che sta affogando nella sofferenza a raggiungere il grande vascello della felicità.

La natura del dialogo
Il dialogo non si limita a una discussione formale o a un placido scambio, lieve come una brezza primaverile. Ci sono tempi in cui, per spezzare la morsa dell’arroganza, il discorso deve essere come un alito di fuoco. Così, anche se tendiamo ad associare il Budda Shakyamuni alla mitezza, egli, quando ce n’era motivo, sapeva anche parlare in maniera spietata.
Allo stesso modo Nichiren, che dimostrava affetto paterno e tenera preoccupazione per le persone comuni, era inflessibile quando si confrontava con le autorità corrotte e degenerate. Sempre disarmato in un Giappone in cui la violenza era la regola, egli faceva affidamento esclusivamente e risolutamente sulla forza della persuasione e della nonviolenza. Gli avevano promesso potere se avesse rinunciato alla sua fede e avevano minacciato di decapitare i suoi genitori se avesse continuato ad aderire alle proprie credenze. Ma, nonostante questo, egli mantenne il coraggio delle proprie convinzioni. Il seguente brano, scritto dall’esilio su un’isola lontana dalla quale nessuno si aspettava che potesse ritornare è un esempio del suo spirito da leone: «Qualunque disgrazia possa capitarmi, a meno che uomini saggi non provino che i miei insegnamenti sono falsi, io non accetterò mai le pratiche delle altre sette!»15.
Nichiren scelse di agire come potrebbe fare solo qualcuno che ha deciso di dedicare la vita alla salvezza di tutta la specie umana. Si adoperò per chiarire fino in fondo quali fossero le teorie giuste e quelle sbagliate e per eliminare il male che tormentava la gente. La sua arma preferita fu la discussione, l’unica arma dell’illuminato.
Quando si dialoga con l’intenzione di influenzare gli altri, è impossibile procedere senza affrontare questioni di giustezza e di errore, di bene e di male. Perché, come dice Montaigne, lo scopo finale del dialogo è la ricerca della verità, e la critica reciproca che esercitano i partecipanti rappresenta la massima manifestazione dello spirito umano.
Quando ero giovane, Josei Toda ci diceva che «i giovani sono l’anima del Giappone perché dispongono di acute capacità critiche».
Egli desiderava ardentemente cancellare la miseria dalla faccia della terra ed esortava i giovani a combattere i numerosi mali che affliggevano la gente con un rigoroso allenamento alla riflessione critica.
Tolleranza non significa compromesso senza scrupoli. Per quanto vasto sia il dialogo, non si potrà realizzare niente di creativo e costruttivo concentrandosi solo sulle possibilità di compromesso senza cercare di distinguere il bene dal male, perdendo così la capacità di pensare criticamente. Al contrario, un simile approccio va contro il desiderio fondamentale dell’essere umano: la ricerca della verità.

La natura del dialogo
Il dialogo non si limita a una discussione formale o a un placido scambio, lieve come una brezza primaverile. Ci sono tempi in cui, per spezzare la morsa dell’arroganza, il discorso deve essere come un alito di fuoco. Così, anche se tendiamo ad associare il Budda Shakyamuni alla mitezza, egli, quando ce n’era motivo, sapeva anche parlare in maniera spietata.
Allo stesso modo Nichiren, che dimostrava affetto paterno e tenera preoccupazione per le persone comuni, era inflessibile quando si confrontava con le autorità corrotte e degenerate. Sempre disarmato in un Giappone in cui la violenza era la regola, egli faceva affidamento esclusivamente e risolutamente sulla forza della persuasione e della nonviolenza. Gli avevano promesso potere se avesse rinunciato alla sua fede e avevano minacciato di decapitare i suoi genitori se avesse continuato ad aderire alle proprie credenze. Ma, nonostante questo, egli mantenne il coraggio delle proprie convinzioni. Il seguente brano, scritto dall’esilio su un’isola lontana dalla quale nessuno si aspettava che potesse ritornare è un esempio del suo spirito da leone: «Qualunque disgrazia possa capitarmi, a meno che uomini saggi non provino che i miei insegnamenti sono falsi, io non accetterò mai le pratiche delle altre sette!»15.
Nichiren scelse di agire come potrebbe fare solo qualcuno che ha deciso di dedicare la vita alla salvezza di tutta la specie umana. Si adoperò per chiarire fino in fondo quali fossero le teorie giuste e quelle sbagliate e per eliminare il male che tormentava la gente. La sua arma preferita fu la discussione, l’unica arma dell’illuminato.
Quando si dialoga con l’intenzione di influenzare gli altri, è impossibile procedere senza affrontare questioni di giustezza e di errore, di bene e di male. Perché, come dice Montaigne, lo scopo finale del dialogo è la ricerca della verità, e la critica reciproca che esercitano i partecipanti rappresenta la massima manifestazione dello spirito umano.
Quando ero giovane, Josei Toda ci diceva che «i giovani sono l’anima del Giappone perché dispongono di acute capacità critiche».
Egli desiderava ardentemente cancellare la miseria dalla faccia della terra ed esortava i giovani a combattere i numerosi mali che affliggevano la gente con un rigoroso allenamento alla riflessione critica.
Tolleranza non significa compromesso senza scrupoli. Per quanto vasto sia il dialogo, non si potrà realizzare niente di creativo e costruttivo concentrandosi solo sulle possibilità di compromesso senza cercare di distinguere il bene dal male, perdendo così la capacità di pensare criticamente. Al contrario, un simile approccio va contro il desiderio fondamentale dell’essere umano: la ricerca della verità.

Il grande io
Naturalmente un’incessante riaffermazione delle proprie idee può degenerare in fanatismo e pregiudizio, come la storia dimostra in maniera così tragica ed eloquente. Com’è possibile risolvere questo annoso dilemma?
Credo che la risposta risieda nello sviluppo di un io più grande, come insegna il Buddismo mahayana. Le scritture buddiste ci dicono che l’io non deve avere altri padroni che se stesso. Ci esortano a non confonderci con gli altri ma a vivere con integrità, rimanendo fedeli a noi stessi. Tuttavia non si riferiscono all’io inferiore o ego ma al grande io che è fuso con la vita cosmica in una rete di relazioni causali che travalicano ogni limite di spazio e tempo. Quest’io più grande è un altro nome per indicare la condizione di apertura mentale di chi s’identifica con le sofferenze di tutti gli esseri senzienti. Quando si pone in relazione con gli altri membri della società, chi ha sviluppato il grande io è in grado “di togliere sofferenza e dare gioia”. Proprio per dare un esempio di questo modo di vivere, Nichiren Daishonin rischiò la propria vita e questo fu anche il modello a cui aderì rigorosamente Josei Toda.
Il grande io è la chiave, a mio avviso, per realizzare la tolleranza che rende possibile il dialogo autentico. La tolleranza può contribuire a creare una nuova epoca di coesistenza, e a rischiarare di speranza l’oscura cortina del pessimismo.

Il dialogo in politica
Se diamo uno sguardo spassionato al mondo attuale possiamo scoprire una nuova tendenza già all’opera sotto le violente onde del cambiamento. A mio avviso siamo alle soglie di una nuova epoca di dialogo. Per anni ho chiesto un dialogo concreto fra i vertici delle potenze mondiali. È necessario che questi leader si incontrino per uno scambio di opinioni franco e costruttivo, e che superino le differenze ideologiche e sociali liberandosi dai preconcetti. Solo allora si potranno porre le fondamenta per la pace nel XXI secolo.
Sono trascorsi più di trent’anni da quando Daniel Bell coniò l’espressione “fine dell’ideologia”, e finalmente stiamo assistendo al sorgere di un nuovo modo di pensare che, travalicando differenze politiche e ideologiche, considera la terra come un tutto unico e interconnesso. Si dice che il presidente Franklin D. Roosvelt, partecipando alla conferenza di Yalta, fosse deciso a seguire l’ammonimento di Ralph Valdo Emerson: «L’unico modo per farsi degli amici è esserlo». Da parte mia credo che quando il mondo politico perde di vista l’idealismo di Emerson è destinato a generare il mondo di bestie prefigurato da Platone.
La Soka Gakkai Internazionale continua a impegnarsi nel dialogo per il progresso della pace, dell’educazione e della cultura. Attualmente stiamo stringendo legami di solidarietà con i cittadini di 181 paesi del mondo.
In termini pratici, abbiamo cercato di promuovere dialoghi fra le civiltà incontrandoci con persone di ogni continente della terra. Ho discusso con i leader intellettuali delle varie confessioni religiose – Cristianesimo, Islamismo, Induismo ed Ebraismo – e spesso queste conversazioni sono state pubblicate. In base ad anni di esperienze di questo genere sono fermamente convinto della possibilità di un dialogo aperto e dell’importanza delle sue implicazioni per la società.
La Legge mistica (myoho), su cui si basa la fede della SGI, è scritta con il carattere cinesemyo che ha tre significati: “aprire”, “essere dotato” e “rivitalizzare”. Come suggerisce il primo significato, la SGI è impegnata in un movimento buddista per aprire i cuori e le menti chiuse, che sono la causa della decadenza della civiltà.
La SGI non mira a curare semplicemente i sintomi superficiali di questa malattia ma vuole sradicarne le cause. Il trattamento sintomatico ovviamente è indispensabile in situazioni di emergenza come i frequenti dissidi etnici. Ma se dimentichiamo che l’attenzione deve essere rivolta soprattutto alle cause sottostanti, le nostre azioni non saranno che un susseguirsi di frenetici tentativi di gestire crisi momentanee, simili a chi cerca di spegnere un fuoco mentre già ne sta scoppiando un altro.
In un’epoca in cui si stavano intensificando le tensioni della guerra fredda, Josei Toda sosteneva l’idea della famiglia globale e pochi gli prestavano attenzione. Al massimo le sue idee venivano liquidate come fantasie irrealistiche. Ma oggi quest’idea è finalmente penetrata nella coscienza pubblica e il “transnazionalismo” è diventato un concetto fondamentale per spiegare e predire la futura direzione delle questioni globali. Di fonte a questa tendenza non possiamo che apprezzare ancor di più la notevole lungimiranza del signor Toda.
Anche se non abbiamo ancora fatto nemmeno il primo passo verso la creazione di un sistema adeguato alla nuova era, esiste un generale accordo sul fatto che le Nazioni Unite dovrebbero svolgere un ruolo centrale nella costruzione di un nuovo ordine globale pacifico. Sembra che – come disse l’ex-segretario dell’ONU Boutros Boutros-Ghali– «abbiamo nuovamente un’opportunità di raggiungere gli obiettivi della Carta, cioè ottenere un’ONU in grado di mantenere pace e sicurezza internazionale, di garantire giustizia e diritti umani e di promuovere, come la Carta stessa afferma, “progresso sociale e migliori condizioni di vita in un ambito di maggiore libertà”».16
Le organizzazioni che compongono la SGI svolgono in tutto il mondo attività mirate a creare la pace nelle rispettive zone, in accordo con il loro Statuto che afferma: «La SGI, basandosi sullo spirito buddista di tolleranza, rispetterà le altre religioni e si impegnerà a dialogare e collaborare con esse per la risoluzione dei problemi fondamentali dell’umanità». Infatti la SGI si è fatta promotrice del dialogo interreligioso patrocinando convegni e altre occasioni di scambio con istituzioni come l’Accademia europea di Scienze e Arti.
Negli ultimi anni, i nostri rappresentanti hanno partecipato al Parlamento delle religioni mondiali a Cape Town, in Sud Africa nel 1999, e al Vertice del Millennio per la pace mondiale dei capi religiosi e spirituali, tenutosi nel 2000 presso la sede delle Nazioni Unite a New York.



Nessun commento:

Posta un commento