Buddismo e Società n.91 - marzo aprile
2002
Saggi
Sette sentieri per
l'armonia globale
La via del dominio di sé
di Daisaku Ikeda
La pace è una virtù che scaturisce dalla
forza di carattere, una condizione che viene mantenuta in maniera consapevole
grazie all'interazione fra l'autocontrollo individuale e quello della società
nel suo complesso
La pace non può essere mera immobilità, un interludio di quiete fra le
guerre. Deve essere un’energica gara di attività vitale, in cui si vince grazie
a uno sforzo di volontà esercitato in prima persona. La pace dev’essere un
dramma vivente, nelle parole di Spinoza, «una virtù che scaturisce dalla forza
di carattere». La pace eterna è una condizione che viene mantenuta in maniera
consapevole grazie all’interazione fra l’autocontrollo individuale e quello
della società nel suo complesso.
Nessuno avrà da ridire su questa descrizione dell’armonia. Il suo opposto si verifica quando lottiamo spietatamente per ottenere scopi apparentemente contrastanti, spesso animati da un’etica per la quale «non c’è pace se non c’è giustizia», etica che è stata la molla propulsiva dei rivoluzionari di ogni credo durante il ventesimo secolo. In un simile contesto la padronanza di sé non viene considerata. Ma, come vedremo, è proprio in tali conflitti che sarebbe essenziale l’autocontrollo che deriva dall’introspezione.
La capacità di percepire gli aspetti negativi di noi stessi ci permette di percepire i lati positivi degli altri. Le relazioni tra le nazioni, come quelle fra individui, non possono essere gestite con maturità se una parte insiste sul proprio punto di vista senza considerare la posizione dell’altra. Non intendo sostenere una concezione manichea del dualismo bene-male ma solo sottolineare la necessità di riconoscere il bene e il male all’interno di ognuno di noi. Anche se ci scontriamo con un rivale, dovremmo cercare di manifestare il bene e annullare il male. La capacità di autocontrollo ci può aiutare a evitare il conflitto e l’ostilità e permetterci di assumere il giusto atteggiamento di accettazione reciproca e di rispetto.
L’errore di fare affidamento sulle riforme esterne
L’approccio esterno al cambiamento sociale fu dichiarato sospetto qualcosa come sessant’anni fa dal poeta inglese Thomas S. Eliot che, allarmato dall’avanzata del fascismo che minacciava i valori umani e democratici, pronunciò un vibrante appello alla radio nel quale fra l’altro, affermava: «Una delle ragioni per cui ritengo che la posizione del riformatore secolare o del rivoluzionario sia la più comoda è la seguente: nella maggior parte dei casi egli ritiene che i mali del mondo siano qualcosa di esterno a lui. O li considera in maniera assolutamente impersonale, e allora non occorre altro che alterare un meccanismo o, se esiste il male incarnato, è sempre incarnato in altra gente, in una classe, una razza, nei politici, nei banchieri, nei fabbricanti di armi e così via, mai in lui stesso».
Eliot individua un punto fondamentale che si ritrova esemplificato nella sequela di trasformazioni a catena nei paesi dell’Est. I regimi comunisti sono crollati perché hanno cercato per troppo tempo i nemici all’esterno, invece di cercare di vedere i mali che albergavano al loro interno. Così la visione della storia come storia della lotta di classe – vale a dire che sarebbe bastato abolire le distinzioni di classe per abolire tutti i mali sociali – è fallita. Sostituendo “classe” con “razza” abbiamo l’infernale mito nazista secondo il quale solo la razza ariana era abbastanza pura da poter governare. È un mito duro a morire. Ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la resistenza degli attuali schieramenti di estrema destra all’ingresso della manodopera straniera nei paesi dell’Europa occidentale continua a tingersi di toni razzisti.
I pericoli dello “spirito astratto”
Anche quelle rivoluzioni del diciannovesimo secolo che nacquero da motivi “puri”, cioè dalla richiesta di libertà, eguaglianza e fraternità, caddero preda di quello che il grande pensatore francese Gabriel Marcel chiama «spirito astratto». Nel romanzo di Anatole France Les Dieux Ont Soif (Gli dei hanno sete) possiamo vederne efficacemente descritti gli effetti. Il protagonista Gamelin, come molti rivoluzionari, non era nato col cuore di pietra. Anzi, era un giovane gentile e pieno di compassione che, nonostante fosse affamato, condivideva tranquillamente il suo pane raffermo con una madre e il figlioletto in procinto di morire di fame. Era puro e generoso, pronto a sacrificarsi senza il minimo rimpianto. La cosa spaventosa è che più pura e idealista è una persona, più facilmente cade preda del sortilegio dello “spirito astratto”. Ben presto, nominato giudice del tribunale rivoluzionario, il protagonista, pieno di ardente zelo, cominciò a emettere severe condanne accantonando ogni tipo di sentimento personale e mandando alla ghigliottina molti dei suoi nemici. Ma alla fine giunse anche il suo turno e fu decapitato insieme al suo maestro Robespierre.
Da un certo punto di vista è facile revisionare le leggi e ricostruire un sistema politico che dica addio per sempre all’ancien régime. Ben altra faccenda è cercare di ricostruire l’essere umano. In parole povere, nelle vicende umane non si può cercare di cambiare troppo in poco tempo. Affrettare le cose significa imporle alla gente con la violenza e le minacce. Possiamo vederlo nel caso del radicalismo politico, che è sempre potenzialmente venato di violenza.
Nel caso dei bolscevichi è stato lo stesso. Certo sembra impossibile dubitare della loro sincerità. La moglie di Lenin, Krupskaya, e altri personaggi di primo piano in ambito educativo nelle prime fasi del bolscevismo, erano degli ottimisti fin troppo pieni di buone intenzioni che sposavano la causa dell’educazione naturale esposta da Rousseau nell’Emile.
Ma, a meno che le persone non abbiano il coraggio di guardare in faccia fino in fondo il proprio egoismo, è difficile dire quando le buone intenzioni si trasformeranno in desiderio di potere, un desiderio che cerca approvazione ammantandosi della bella maschera dell’ideologia. È sempre il male occulto dello “spirito astratto” che mandava in collera il dottor Zivago nel grande romanzo di Pasternak: «Rifare la vita! Così può pensare solo gente che ne avrà anche viste di tutti i colori, ma che non ha mai conosciuto la vita, non ha mai sentito il suo spirito, la sua anima. Per costoro l’esistenza è un grumo di materiale grezzo, che il proprio contatto non ha ancora nobilitato e che perciò ha bisogno della loro rielaborazione. Ma la vita non è mai un materiale, una sostanza. La vita, se volete saperlo, è un elemento che continuamente si rinnova e rielabora da sé, che da sé si rifà e si ricrea incessantemente, sempre tanto più alta di tutte le nostre ottuse teorie». (Boris Pasternak, Il dottor Zivago, trad. di Pietro Zvteremich, Feltrinelli, Milano 1963, pag. 267).
La causa primaria del male nascosto risiede nella tendenza dello “spirito astratto” a cercare di imporre ordine all’animo umano dal di fuori, spesso attraverso la pressione esterna. Un vero progresso o riforma della condizione umana non può verificarsi a meno che non si sviluppi spontaneamente attraverso un impulso interiore e grazie alla forza interiore. Le forze esterne possono al massimo fungere da fattori secondari che servono a destare il progresso interno. E tuttavia i posseduti dallo “spirito astratto” hanno negato nella maniera più assoluta i fattori interni, liquidandoli come idealistici. In maniera estremizzata hanno cercato di includere tutto nello schema precostituito dell’idelogia esterna. Lo sgretolamento e il crollo della società socialista ai quali abbiamo assistito alla fine del ventesimo secolo sono la testimonianza del fallimento di questo irragionevole tentativo. E la desolazione spirituale che si è rivelata una volta strappata la maschera dell’ideologia ha dimostrato con agghiacciante chiarezza quali crudeli distruzioni può operare lo spirito astratto sul cuore umano.
Radicalismo e violenza
Perché così spesso la violenza intrinseca nel radicalismo distrugge le basi umanistiche delle rivoluzioni? Il Mahatma Gandhi e il suo successore Jawaharlal Nehru avevano una chiara consapevolezza di quanto fosse negativo il radicalismo politico generato dallo “spirito astratto”. Sono famose le parole di Gandhi: «Questo socialismo è puro come il cristallo. Perciò per realizzarlo occorrono mezzi altrettanto cristallini. […] E quindi soltanto socialisti sinceri, nonviolenti e dal cuore puro saranno capaci di istituire una società socialista in India e nel mondo».
Gandhi punta direttamente alla vera natura del socialismo. Le teorie socialiste espongono belle idee dotate anche di una coerenza logica di tipo astratto. Proprio per questo le persone insistono tanto per realizzare concretamente questi ideali. Naturalmente, se si sa che qualcosa è buono, prima si mette in pratica meglio è. Di conseguenza si ha sempre troppa fretta di riformare il sistema e si tende a dimenticare gli esseri umani che sono la parte più importante del processo di riforma. Il difetto fatale del socialismo perciò risiede non tanto nel fallimento dei tentativi di far crescere «socialisti sinceri, nonviolenti e dal cuore puro» ma piuttosto nella totale assenza di qualsiasi sforzo per coltivare persone simili.
Riforma interiore
A parte il sistema politico, cosa può far crescere persone sincere, nonviolente e dal cuore puro? La costruzione di una pace durevole dipende da quante persone dotate di autocontrollo si possono far crescere attraverso la pratica religiosa. Una religione degna del suo nome e in grado di rispondere ai bisogni dei tempi attuali dovrebbe offrire ai suoi seguaci la base spirituale per diventare buoni cittadini del mondo.
Nel Buddismo mahayana si parla di dieci condizioni potenziali della vita, inerenti all’essere umano, i cosiddetti dieci mondi. Secondo questo principio, chi dà inizio alle guerre vive nei quattro stati più bassi di Inferno, Avidità, Animalità e Collera, collettivamente definiti come “i quattro cattivi sentieri”. I pensieri e le azioni di questi individui, controllati dall’istinto e dal desiderio, sono inevitabilmente stupidi e barbarici. Perciò, dal punto di vista buddista, la questione di come erigere, in accordo con la Costituzione dell’UNESCO, “baluardi di pace” nel cuore di questi individui, ha la precedenza su qualsiasi fattore sistemico esterno e rappresenta sia il punto di partenza che il nucleo fondamentale di qualsiasi tentativo di costruire la pace nel mondo.
Il Buddismo sottolinea l’importanza della qualità della nostra motivazione dando valore a ciò che sgorga spontaneamente dall’interno, come esprime la semplice frase «la cosa importante è il cuore».
Ci insegna che l’obiettivo fondamentale della vita del Budda è stato rivelato dall’umanità che ha manifestato nel comportamento e nelle azioni. Nella tradizione buddista i veri scopi della pratica religiosa sono coltivare e perfezionare il carattere individuale. Le norme che non vengono generate dall’interno e non incoraggiano lo sviluppo della personalità si rivelano in ultima analisi deboli e inefficaci. Solo quando le norme esterne e i valori interiori operano in maniera da sostenersi a vicenda potranno permettere alle persone di resistere al male e vivere come sincere promotrici dei diritti umani.
La repubblica interna
Nell’esaminare le norme interne e quelle esterne può essere illuminante riconsiderare l’idea platonica di democrazia. Nell’ottavo libro della Repubblica, Platone descrive cinque tipi di governo: aristocrazia, timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannia. Egli analizza i vari sistemi, ordinandoli gerarchicamente in termini di pro e contro, e prosegue descrivendo i tipi di natura umana a cui ogni sistema meglio si adatta. Nell’ordinamento platonico la democrazia sta al quarto posto, mentre il sistema al quale egli attribuisce maggiore considerazione è un’aristocrazia benevola che si dedica all’amore per il sapere.
La scarsa stima che Platone ha della democrazia deriva dal fatto che egli trascorse la gioventù nei giorni caotici del declino della democrazia ateniese. La guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta era iniziata poco prima della sua nascita e quando terminò, quasi trent’anni più tardi, con la sconfitta di Atene, Platone aveva venticinque o ventisei anni. Così egli trascorse gran parte della gioventù in mezzo alle tribolazioni arrecate da quell’interminabile conflitto. Poco dopo l’inizio della guerra, Atene aveva perso il suo grande statista Pericle a causa di una malattia, e la democrazia ateniese si era rapidamente deteriorata. Platone, giovane estremamente sensibile e acuto, vide l’umanità toccare il fondo dell’abiezione. Le sue opinioni sulle altre persone e sul governo furono inevitabilmente influenzate da ciò che osservava e lo condussero a una severa denuncia dell’egoismo umano e a una visione critica della realtà.
Il colpo finale per Platone dev’essere stata la condanna a morte dell’amato maestro Socrate da parte di demagoghi capaci solo di soddisfare le esigenze di una popolazione ottusa e facile alle sollevazioni. Per Platone, Socrate era stato assassinato dalla democrazia ateniese. Era stata messa a morte la persona più retta e virtuosa. Non c’è da meravigliarsi che egli fosse scettico riguardo alla democrazia.
Le esperienze giovanili s’incisero profondamente nel cuore di Platone donandogli una rara capacità di penetrazione della natura umana e della società. Il suo dettagliato e a tratti comico ritratto della democrazia che ha l’innata tendenza a trasformarsi nel suo esatto opposto, la tirannia, è un capolavoro di razionalità dotato di grande capacità persuasiva.
Questo ci porta al paradosso della libertà. I sostenitori della democrazia, dice Platone, affermano che la libertà è la più grande virtù della democrazia e che perciò quest’ultima è l’unica condizione adatta agli esseri umani, la cui natura è essenzialmente libera. Ma la democrazia, autorizzando l’insaziabile ricerca della libertà, alimenta un gran numero di desideri che gradualmente e insidiosamente «s’impadroniscono della fortezza dell’anima del giovane» e lo conducono lungo la china dell’arroganza. La modestia viene liquidata come stupidità, si ha vergogna della temperanza perché non è virile, la moderazione e la parsimonia nelle spese e nei consumi vengono considerate noiose e meschine.
Infine si perde il controllo della situazione e si ricerca un forte capo in grado di restaurare l’ordine. Fra tanti “inutili fuchi” si cerca quell’unica creatura dotata di pungiglione che dapprima emerge come leader delle masse ma ben presto cede al diabolico fascino del potere e si trasforma inevitabilmente in un tiranno. Come osserva acutamente Platone, «sembra che l’eccesso di libertà, negli Stati come negli individui, sia destinato soltanto a tramutarsi in eccessiva schiavitù» per mano di un dittatore.
È un riassunto un po’ semplicistico delle idee di Platone eppure basta a illustrare vivacemente la patologia e il paradosso della libertà che esercita un’irresistibile attrazione ma è molto difficile da gestire e continua a essere un pesante fardello da portare. Seguendo oggi le eloquenti argomentazioni della Repubblica ci si stupisce della loro veridicità e della capacità persuasiva con cui Platone sostiene la sua posizione. E della fedeltà con cui i vari capitoli descrivono i modelli che hanno generato anche i regimi totalitari contemporanei.
La violenta critica di Platone alla democrazia è stata attaccata e refutata da molti ideologi moderni che non sono teneri riguardo per esempio all’idea che donne e bambini dovrebbero essere allevati in comunità, che lo Stato dovrebbe essere dominato da un piccolo numero di filosofi o che i poeti dovrebbero essere espulsi, e denunciano gli ideali platonici come una forma estrema di comunismo.
Il filosofo francese Alain è probabilmente l’interprete più fedele delle argomentazioni platoniche quando si chiede se mai qualcuno ha cercato di interpretare la Repubblica come una guida individuale all’autocontrollo interiore. Alain vede l’opera di Platone più come un discorso sulla natura umana che sul governo, specialmente per il modo in cui ruota intorno al concetto di anima. E aggiunge che le parti che riguardano il governo sono bizzarre e inserite volutamente per confondere il lettore frettoloso. Platone preferiva non essere capito piuttosto che frainteso, afferma Alain.
La salute dell’anima
La penna di Platone passa velocemente dall’analisi delle istituzioni all’argomento della personalità umana. Subito dopo aver descritto, nell’ottavo libro della Repubblica, i cinque tipi di governo e i caratteri degli individui adatti a essi, Platone dedica il libro nono alle questioni della salute e dell’armonia dell’anima. È una naturale conseguenza del suo principale intento nella stesura dell’opera. Secondo Platone l’anima è costituita da tre parti, razionale, irascibile e concupiscente e la salute e l’armonia dell’anima si realizzano quando la parte razionale comanda e quella irascibile obbedisce. Verso la fine del nono libro appare chiaramente che Platone sta volgendo la nostra attenzione verso la “politica” interna a noi stessi. Dopo tutto non si possono analizzare le questioni di politica estera senza aver prima sistemato quelle di politica interna.
Da questo tema si passa con naturalezza a quello successivo, che costituisce l’interesse primario di Platone: l’immortalità dell’anima. La Repubblica si conclude con la storia di un eroe di nome Er, risorto dalla morte dopo dodici giorni, che parla per esperienza diretta del destino dell’anima dopo la morte. Il racconto riconferma il punto di vista di Platone secondo il quale la fede nell’immortalità dell’anima è essenziale per l’armonia e la salute di questa. E in questo punto egli si avvicina molto, pur senza entrarci realmente, al regno della religione.
Ho voluto esaminare nei dettagli la posizione di Platone perché ritengo che la sua idea di ordinamento dell’anima, in cui è la parte razionale che governa, sia fondamentale per gettare solide basi di un’epoca di democrazia basata sulla volontà popolare. Non esiste autorità, per quanto potente, che può andare per troppo tempo contro la volontà del popolo.
Ora il compito difficile che abbiamo di fronte è la trasformazione dell’energia liberatoria in energia costruttiva. Dobbiamo partire guardando dentro di noi analizzando, come sostiene Platone, lo “stato interno’” ancor più rigorosamente dello “stato esterno”.
Da tale processo di introspezione a mio avviso scaturiranno intuizioni importanti per la definizione del significato universale dei diritti umani. L’articolazione di una simile definizione servirà sia come simbolo del movimento per la libertà e la democrazia che come risposta a uno dei bisogni più pressanti del ventunesimo secolo.
L’arte della padronanza di sé
Gli effetti del padroneggiare lo “stato interiore” possono essere stupefacenti. Per esempio Leonardo da Vinci era sotto molti aspetti il prodotto di tale padronanza di sé. Totalmente libero e indipendente, non solo non era soggetto ad alcuna costrizione religiosa o morale ma non si sentiva vincolato nemmeno dalla nazione, dalla famiglia, dagli amici o conoscenti. Era un cittadino del mondo, intoccabile e insuperato.
Leonardo era figlio illegittimo e nel corso della sua vita non si sposò mai. Si sa poco della famiglia e anche i legami con la repubblica di Firenze, in cui era nato, erano deboli. Completato l’apprendistato a Firenze si recò immediatamente a Milano, dove trascorse circa diciassette anni sotto il patronato del duca Ludovico Sforza. In seguito alla caduta in disgrazia degli Sforza, Leonardo trascorse un breve periodo al servizio del duca di Romagna. Poi si trasferì a Firenze, a Roma, e di nuovo a Milano, dove lo portarono i suoi interessi o progetti.
In qualsasi circostanza o situazione Leonardo dimostrava scarso interesse a prender parte ai giudizi dei suoi contemporanei sul patriottismo o i vantaggi della fedeltà a un solo signore. Invece perseguiva uno stile di vita ideale che gli permettesse di considerare tutte le cose con distacco.
Non prestava attenzione alcuna alle seduzioni della fama e della ricchezza e tuttavia non si ribellava contro l’autorità costituita. Nella sua singolare dedizione ai propri interessi personali era impermeabile a qualsiasi convenzione mondana.
Leonardo non era una persona priva di emozioni e nemmeno mancava di virtù, ma la sua vita fu caratterizzata dalla trascendenza delle questioni mondane e dal perseguire in modo coerente e determinato la propria vocazione.
Leonardo era un genio multiforme di sorprendente versatilità e ampiezza d’interessi. Oltre che pittore era un abile scultore, ingegnere civile e inventore di una miriade di dispositivi, dalle macchine volanti agli armamenti da guerra. La stessa persona che studiava idrodinamica e fisiologia delle piante e che analizzava il volo degli uccelli possedeva anche un vivido interesse per l’anatomia umana.
Qualsiasi cosa si possa dire di Leonardo, la portata della sua mente era troppo grande per essere misurata dalle norme della società. La libertà con la quale si sollevò oltre le cure mondane ci dà un assaggio di come potrebbe essere un vero libero cittadino del mondo. La vita di Leonardo cattura lalibertà e il vigore peculiari del Rinascimento italiano.
Ciò che permise a Leonardo di raggiungere una libertà simile fu senza dubbio la sua padronanza di sé. Egli scriveva: «Non si può aver dominio più grande o più piccolo che quello su se stessi».
Era il suo principio primo, dal quale derivavano tutti gli altri. La padronanza di sé gli permise di rispondere in maniera elastica a ogni realtà. Riteneva di secondaria importanza le virtù tradizionali del suo tempo, come la lealtà o la bontà. Per esempio non ebbe scrupoli nell’accettare l’invito di Francesco I a recarsi in Francia anche se quel re era stato responsabile della caduta del suo precedente mecenate, Ludovico Sforza. Si trattò di tradimento, di mancanza di integrità? Io vedo piuttosto nell’atto di Leonardo la tolleranza che deriva dall’apertura mentale e dalla magnanimità.
La capacità di Leonardo di svincolarsi dalle convenzioni ci ricorda il concetto buddista di “trascendere il mondo”. Per “mondo” si intende il regno delle differenze tra bene e male, amore e odio, bellezza e bruttezza, vantaggio e svantaggio. “Trascendere il mondo” significa liberarsi dall’attaccamento a tutte queste distinzioni.
Il Sutra del Loto, supremo insegnamento del Buddismo, parla della necessità di guidare gli esseri viventi per «far sì che essi rinuncino ai propri attaccamenti». Nichiren, ai cui insegnamenti si ispirano le attività della Soka Gakkai, commentando il sutra afferma: «La parola rinunciare in realtà significa discernere». Non è sufficiente liberarsi semplicemente dagli attaccamenti, dobbiamo analizzarli chiaramente e attentamente per vederli per quello che sono. Dunque, “trascendere il mondo” significa costruire un forte io interiore che permetta di fare un uso corretto di ogni attaccamento.
Le ultime parole del Budda Shakyamuni furono: «Tutti i fenomeni sono transitori. Perfezionate la vostra pratica e non diventate mai negligenti». Anche Nichiren esorta a «rafforzare la tua fede giorno dopo giorno e mese dopo mese. Se ti rilassi anche solo un po’ i demoni prenderanno il sopravvento».
E in un altro brano esprime la più profonda delle verità sulla vita: «Anche uno specchio appannato brillerà come un gioiello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni derivate dall’oscurità innata della vita è come uno specchio appannato che però, una volta lucidato, diverrà chiaro e rifletterà l’illuminazione della verità immutabile» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 5).
Il distacco da ciò che è transitorio e illusorio è un segno di carattere, un altro nome per descrivere un essere umano completo. I principi che ho menzionato non sono mere astrazioni ma qualcosa che chi vuole migliorare il proprio carattere deve ricercare dentro di sé.
Josei Toda uscì dal carcere, in cui l’avevano rinchiuso per due anni le autorità militariste giapponesi, per dare avvio a un nuovo movimento umanista in Giappone. Egli era sempre concentrato sul far crescere persone di carattere, una alla volta, in mezzo alla popolazione. Ho molti cari ricordi di quell’uomo pieno di compassione, il cui amore per la gioventù non conosceva confini e che ci incoraggiava a essere grandi attori sul palcoscenico della vita.
In effetti il potere del carattere è come l’energia concentrata di un attore che si cala completamente nell’interpretazione del proprio ruolo. Una persona di notevole carattere, anche nelle circostanze più difficili mantiene sempre un aspetto composto e a proprio agio e non perde nemmeno il senso dell’umorismo. Questo non è altro che l’aver raggiunto la padronanza o il controllo di sé.
Una volta chiesero a Goethe, che in aggiunta ai suoi molteplici talenti era anche un eccellente regista teatrale, che cosa cercasse in un attore ed egli rispose: «Soprattutto controllo di sé. Un attore che non è padrone di se stesso, che non è capace di mostrarsi a uno sconosciuto nella sua luce migliore, in genere ha ben poco talento. È la sua professione stessa che richiede una continua negazione di sé».
L’idea di autocontrollo di Goethe corrisponde al concetto di moderazione nella filosofia platonica. L’autocontrollo non è soltanto una qualità essenziale per un attore ma si può dire che sia il requisito principale per lo sviluppo del carattere.
Il carattere e la “rivoluzione umana"
Il punto dunque è: «Che cosa può produrre una cambiamento nel carattere?». Nella pratica buddista coltivare la consapevolezza della propria “condizione vitale” e fare sforzi assidui e tenaci per elevarla costituisce la padronanza di se stessi, la pratica della “rivoluzione umana”.
C’è un insegnamento centrale della filosofia buddista che ha una diretta rilevanza per la questione della formazione del carattere. Il Buddismo classifica gli stati o condizioni vitali che costituiscono l’esperienza umana nei cosiddetti dieci mondi. Dal più basso al più desiderabile essi sono: il mondo d’Inferno, una condizione immersa nella sofferenza; il mondo di Avidità, in cui corpo e mente sono avvolti dalle furiose fiamme del desiderio; il mondo di Animalità, in cui si teme chi è più forte e ci si approfitta di chi è più debole; il mondo di Collera, caratterizzato dal desiderio compulsivo e costante di superare e dominare gli altri; il mondo di Umanità, una condizione tranquilla caratterizzata dalla capacità di formulare giudizi razionali; il mondo d’Estasi, uno stato colmo di gioia; il mondo di Studio, la condizione in cui si aspira all’illuminazione; il mondo di Realizzazione in cui, senza alcun aiuto esterno, percepiamo la vera natura dei fenomeni; il mondo di Bodhisattva, una condizione compassionevole in cui si cerca di salvare tutte le persone dalla sofferenza e infine il mondo di Buddità, una condizione di completezza umana e perfetta libertà.
All’interno di ognuno di questi stati si ritrova a sua volta l’intero spettro dei dieci mondi. In altre parole, lo stato d’Inferno contiene al suo interno ogni stato da Inferno a Buddità. Nella visione buddista, la vita non è mai statica bensì è un flusso costante di trasformazioni dinamiche, di momento in momento, da uno stato all’altro. Il punto fondamentale è dunque quale di questi dieci stati, che esistono in un vibrante flusso vitale, costituisce la base delle nostre vite individuali. Il Buddismo ci offre, come esistenza umana ideale, un modo di vivere basato sugli stati più alti, quelli di Bodhisattva e Buddità.
Naturalmente le emozioni – gioia, dolore, piacere e collera – sono l’ordito sul quale si dipana il tessuto della vita e noi continuiamo a sperimentare l’intera gamma dei dieci mondi. Queste esperienze però possono essere modellate e indirizzate dagli indistruttibili stati di Bodhisattva e Buddità.
La filosofia della rivoluzione umana, su cui si basa la SGI, ricorda il concetto leonardesco di dominio di sé. Traducendo in azione le nostre convinzioni noi sosteniamo le Nazioni Unite, svolgiamo molte altre attività a beneficio della pace e della cultura e, grazie a queste iniziative, contribuiamo alla società nel suo complesso. Allo stesso tempo sottolineiamo l’importanza della riforma interiore del singolo. «Il tuo maestro sei tu» affermano le scritture buddiste. «Chi altro potrebbe esserlo? Quando si acquisisce il controllo su se stessi, si è acquisito un maestro di raro valore».
E un altro brano recita: «Sii la tua stessa lampada. Conta su te stesso. Tieniti stretta la Legge come una lampada, non contare su nient’altro».
Il grande io e il piccolo io
Entrambi questi brani esortano a vivere in maniera indipendente, fedeli a se stessi e senza farsi sviare dagli altri. Ma l’“io” a cui si fa riferimento qui non è il “piccolo io” buddista, prigioniero dell’egoismo. È il “grande io” che è fuso con la vita dell’universo, attraverso la quale causa ed effetto si intrecciano fino ai confini illimitati dello spazio e del tempo.
Il grande io cosmico è simile al “sé” unificante e integrante che Carl G. Jung percepiva nelle profondità dell’io. È simile anche alla «bellezza universale con la quale ogni parte e particella è ugualmente in relazione: l’Uno eterno» di cui parlava lo scrittore Ralph Waldo Emerson.
Sono fermamente convinto che un risveglio al “grande io” su larga scala condurrà il mondo a una coesistenza creativa nel prossimo secolo. [...]
Il grande io del Buddismo mahayana è un altro modo di esprimere l’apertura e l’espansione del carattere che abbraccia le sofferenze di tutte le persone come se fossero le proprie. Questo io cerca sempre modi per alleviare il dolore e aumentare la felicità degli altri, qui, nella realtà della vita di tutti i giorni.
Solo la solidarietà che può generare una così naturale nobiltà umana spezzerà l’isolamento dell’io moderno e farà sorgere una nuova speranza per la civiltà. Inoltre il risveglio dinamico e vitale del grande io permetterà a ognuno di noi di sperimentare con pari piacere sia la vita che la morte. Come afferma Nichiren: «Adorniamo la torre preziosa del nostro essere con i quattro aspetti di nascita, invecchiamento, malattia e morte».
Se siamo sufficientemente padroni di noi stessi non ci sentiremo costretti a imporre i nostri valori agli altri e nemmeno a calpestare i costumi e i valori a loro cari. Il controllo di sé ci impedisce anche di cercare di razionalizzare tutto in termini economici, incuranti delle condizioni, delle percezioni e delle diversità degli altri paesi, impedendoci così di autorelegarci all’ignobile stregua di animali economici.
Rispetto per tutta l’umanità
Nel Sutra del Loto c’è un bodhisattva chiamato Mai Sprezzante. Egli crede che, poiché tutti gli esseri umani posseggono la natura di Budda, nessuno possa essere disprezzato, che a tutta la vita e a tutta l’umanità vada accordato il massimo rispetto. Anche quando persone tronfie e arroganti lo denunciano e lo colpiscono con bastoni e pietre, egli continua a rifiutarsi di disprezzarli, convinto che ciò equivarrebbe a disprezzare il Budda. E continua a predicare questa dottrina fino alla fine, manifestando un supremo rispetto per l’umanità in ogni sua parola o azione.
L’incrollabile convinzione del Bodhisattva Mai Sprezzante è un esempio del tipo di autocontrollo che dobbiamo sviluppare in noi stessi. Nel Sutra del Loto, la storia del Bodhisattva Mai Sprezzante è una parabola sull’essenza della disciplina buddista.
È simile anche alla tesi platonica per cui dovremmo imparare a porre le nostre anime sotto il controllo della “parte razionale” e illustra l’importanza dell’autocontrollo come virtù universale di tutta l’umanità e requisito primario di un mondo senza guerre.
Nessuno avrà da ridire su questa descrizione dell’armonia. Il suo opposto si verifica quando lottiamo spietatamente per ottenere scopi apparentemente contrastanti, spesso animati da un’etica per la quale «non c’è pace se non c’è giustizia», etica che è stata la molla propulsiva dei rivoluzionari di ogni credo durante il ventesimo secolo. In un simile contesto la padronanza di sé non viene considerata. Ma, come vedremo, è proprio in tali conflitti che sarebbe essenziale l’autocontrollo che deriva dall’introspezione.
La capacità di percepire gli aspetti negativi di noi stessi ci permette di percepire i lati positivi degli altri. Le relazioni tra le nazioni, come quelle fra individui, non possono essere gestite con maturità se una parte insiste sul proprio punto di vista senza considerare la posizione dell’altra. Non intendo sostenere una concezione manichea del dualismo bene-male ma solo sottolineare la necessità di riconoscere il bene e il male all’interno di ognuno di noi. Anche se ci scontriamo con un rivale, dovremmo cercare di manifestare il bene e annullare il male. La capacità di autocontrollo ci può aiutare a evitare il conflitto e l’ostilità e permetterci di assumere il giusto atteggiamento di accettazione reciproca e di rispetto.
L’errore di fare affidamento sulle riforme esterne
L’approccio esterno al cambiamento sociale fu dichiarato sospetto qualcosa come sessant’anni fa dal poeta inglese Thomas S. Eliot che, allarmato dall’avanzata del fascismo che minacciava i valori umani e democratici, pronunciò un vibrante appello alla radio nel quale fra l’altro, affermava: «Una delle ragioni per cui ritengo che la posizione del riformatore secolare o del rivoluzionario sia la più comoda è la seguente: nella maggior parte dei casi egli ritiene che i mali del mondo siano qualcosa di esterno a lui. O li considera in maniera assolutamente impersonale, e allora non occorre altro che alterare un meccanismo o, se esiste il male incarnato, è sempre incarnato in altra gente, in una classe, una razza, nei politici, nei banchieri, nei fabbricanti di armi e così via, mai in lui stesso».
Eliot individua un punto fondamentale che si ritrova esemplificato nella sequela di trasformazioni a catena nei paesi dell’Est. I regimi comunisti sono crollati perché hanno cercato per troppo tempo i nemici all’esterno, invece di cercare di vedere i mali che albergavano al loro interno. Così la visione della storia come storia della lotta di classe – vale a dire che sarebbe bastato abolire le distinzioni di classe per abolire tutti i mali sociali – è fallita. Sostituendo “classe” con “razza” abbiamo l’infernale mito nazista secondo il quale solo la razza ariana era abbastanza pura da poter governare. È un mito duro a morire. Ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la resistenza degli attuali schieramenti di estrema destra all’ingresso della manodopera straniera nei paesi dell’Europa occidentale continua a tingersi di toni razzisti.
I pericoli dello “spirito astratto”
Anche quelle rivoluzioni del diciannovesimo secolo che nacquero da motivi “puri”, cioè dalla richiesta di libertà, eguaglianza e fraternità, caddero preda di quello che il grande pensatore francese Gabriel Marcel chiama «spirito astratto». Nel romanzo di Anatole France Les Dieux Ont Soif (Gli dei hanno sete) possiamo vederne efficacemente descritti gli effetti. Il protagonista Gamelin, come molti rivoluzionari, non era nato col cuore di pietra. Anzi, era un giovane gentile e pieno di compassione che, nonostante fosse affamato, condivideva tranquillamente il suo pane raffermo con una madre e il figlioletto in procinto di morire di fame. Era puro e generoso, pronto a sacrificarsi senza il minimo rimpianto. La cosa spaventosa è che più pura e idealista è una persona, più facilmente cade preda del sortilegio dello “spirito astratto”. Ben presto, nominato giudice del tribunale rivoluzionario, il protagonista, pieno di ardente zelo, cominciò a emettere severe condanne accantonando ogni tipo di sentimento personale e mandando alla ghigliottina molti dei suoi nemici. Ma alla fine giunse anche il suo turno e fu decapitato insieme al suo maestro Robespierre.
Da un certo punto di vista è facile revisionare le leggi e ricostruire un sistema politico che dica addio per sempre all’ancien régime. Ben altra faccenda è cercare di ricostruire l’essere umano. In parole povere, nelle vicende umane non si può cercare di cambiare troppo in poco tempo. Affrettare le cose significa imporle alla gente con la violenza e le minacce. Possiamo vederlo nel caso del radicalismo politico, che è sempre potenzialmente venato di violenza.
Nel caso dei bolscevichi è stato lo stesso. Certo sembra impossibile dubitare della loro sincerità. La moglie di Lenin, Krupskaya, e altri personaggi di primo piano in ambito educativo nelle prime fasi del bolscevismo, erano degli ottimisti fin troppo pieni di buone intenzioni che sposavano la causa dell’educazione naturale esposta da Rousseau nell’Emile.
Ma, a meno che le persone non abbiano il coraggio di guardare in faccia fino in fondo il proprio egoismo, è difficile dire quando le buone intenzioni si trasformeranno in desiderio di potere, un desiderio che cerca approvazione ammantandosi della bella maschera dell’ideologia. È sempre il male occulto dello “spirito astratto” che mandava in collera il dottor Zivago nel grande romanzo di Pasternak: «Rifare la vita! Così può pensare solo gente che ne avrà anche viste di tutti i colori, ma che non ha mai conosciuto la vita, non ha mai sentito il suo spirito, la sua anima. Per costoro l’esistenza è un grumo di materiale grezzo, che il proprio contatto non ha ancora nobilitato e che perciò ha bisogno della loro rielaborazione. Ma la vita non è mai un materiale, una sostanza. La vita, se volete saperlo, è un elemento che continuamente si rinnova e rielabora da sé, che da sé si rifà e si ricrea incessantemente, sempre tanto più alta di tutte le nostre ottuse teorie». (Boris Pasternak, Il dottor Zivago, trad. di Pietro Zvteremich, Feltrinelli, Milano 1963, pag. 267).
La causa primaria del male nascosto risiede nella tendenza dello “spirito astratto” a cercare di imporre ordine all’animo umano dal di fuori, spesso attraverso la pressione esterna. Un vero progresso o riforma della condizione umana non può verificarsi a meno che non si sviluppi spontaneamente attraverso un impulso interiore e grazie alla forza interiore. Le forze esterne possono al massimo fungere da fattori secondari che servono a destare il progresso interno. E tuttavia i posseduti dallo “spirito astratto” hanno negato nella maniera più assoluta i fattori interni, liquidandoli come idealistici. In maniera estremizzata hanno cercato di includere tutto nello schema precostituito dell’idelogia esterna. Lo sgretolamento e il crollo della società socialista ai quali abbiamo assistito alla fine del ventesimo secolo sono la testimonianza del fallimento di questo irragionevole tentativo. E la desolazione spirituale che si è rivelata una volta strappata la maschera dell’ideologia ha dimostrato con agghiacciante chiarezza quali crudeli distruzioni può operare lo spirito astratto sul cuore umano.
Radicalismo e violenza
Perché così spesso la violenza intrinseca nel radicalismo distrugge le basi umanistiche delle rivoluzioni? Il Mahatma Gandhi e il suo successore Jawaharlal Nehru avevano una chiara consapevolezza di quanto fosse negativo il radicalismo politico generato dallo “spirito astratto”. Sono famose le parole di Gandhi: «Questo socialismo è puro come il cristallo. Perciò per realizzarlo occorrono mezzi altrettanto cristallini. […] E quindi soltanto socialisti sinceri, nonviolenti e dal cuore puro saranno capaci di istituire una società socialista in India e nel mondo».
Gandhi punta direttamente alla vera natura del socialismo. Le teorie socialiste espongono belle idee dotate anche di una coerenza logica di tipo astratto. Proprio per questo le persone insistono tanto per realizzare concretamente questi ideali. Naturalmente, se si sa che qualcosa è buono, prima si mette in pratica meglio è. Di conseguenza si ha sempre troppa fretta di riformare il sistema e si tende a dimenticare gli esseri umani che sono la parte più importante del processo di riforma. Il difetto fatale del socialismo perciò risiede non tanto nel fallimento dei tentativi di far crescere «socialisti sinceri, nonviolenti e dal cuore puro» ma piuttosto nella totale assenza di qualsiasi sforzo per coltivare persone simili.
Riforma interiore
A parte il sistema politico, cosa può far crescere persone sincere, nonviolente e dal cuore puro? La costruzione di una pace durevole dipende da quante persone dotate di autocontrollo si possono far crescere attraverso la pratica religiosa. Una religione degna del suo nome e in grado di rispondere ai bisogni dei tempi attuali dovrebbe offrire ai suoi seguaci la base spirituale per diventare buoni cittadini del mondo.
Nel Buddismo mahayana si parla di dieci condizioni potenziali della vita, inerenti all’essere umano, i cosiddetti dieci mondi. Secondo questo principio, chi dà inizio alle guerre vive nei quattro stati più bassi di Inferno, Avidità, Animalità e Collera, collettivamente definiti come “i quattro cattivi sentieri”. I pensieri e le azioni di questi individui, controllati dall’istinto e dal desiderio, sono inevitabilmente stupidi e barbarici. Perciò, dal punto di vista buddista, la questione di come erigere, in accordo con la Costituzione dell’UNESCO, “baluardi di pace” nel cuore di questi individui, ha la precedenza su qualsiasi fattore sistemico esterno e rappresenta sia il punto di partenza che il nucleo fondamentale di qualsiasi tentativo di costruire la pace nel mondo.
Il Buddismo sottolinea l’importanza della qualità della nostra motivazione dando valore a ciò che sgorga spontaneamente dall’interno, come esprime la semplice frase «la cosa importante è il cuore».
Ci insegna che l’obiettivo fondamentale della vita del Budda è stato rivelato dall’umanità che ha manifestato nel comportamento e nelle azioni. Nella tradizione buddista i veri scopi della pratica religiosa sono coltivare e perfezionare il carattere individuale. Le norme che non vengono generate dall’interno e non incoraggiano lo sviluppo della personalità si rivelano in ultima analisi deboli e inefficaci. Solo quando le norme esterne e i valori interiori operano in maniera da sostenersi a vicenda potranno permettere alle persone di resistere al male e vivere come sincere promotrici dei diritti umani.
La repubblica interna
Nell’esaminare le norme interne e quelle esterne può essere illuminante riconsiderare l’idea platonica di democrazia. Nell’ottavo libro della Repubblica, Platone descrive cinque tipi di governo: aristocrazia, timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannia. Egli analizza i vari sistemi, ordinandoli gerarchicamente in termini di pro e contro, e prosegue descrivendo i tipi di natura umana a cui ogni sistema meglio si adatta. Nell’ordinamento platonico la democrazia sta al quarto posto, mentre il sistema al quale egli attribuisce maggiore considerazione è un’aristocrazia benevola che si dedica all’amore per il sapere.
La scarsa stima che Platone ha della democrazia deriva dal fatto che egli trascorse la gioventù nei giorni caotici del declino della democrazia ateniese. La guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta era iniziata poco prima della sua nascita e quando terminò, quasi trent’anni più tardi, con la sconfitta di Atene, Platone aveva venticinque o ventisei anni. Così egli trascorse gran parte della gioventù in mezzo alle tribolazioni arrecate da quell’interminabile conflitto. Poco dopo l’inizio della guerra, Atene aveva perso il suo grande statista Pericle a causa di una malattia, e la democrazia ateniese si era rapidamente deteriorata. Platone, giovane estremamente sensibile e acuto, vide l’umanità toccare il fondo dell’abiezione. Le sue opinioni sulle altre persone e sul governo furono inevitabilmente influenzate da ciò che osservava e lo condussero a una severa denuncia dell’egoismo umano e a una visione critica della realtà.
Il colpo finale per Platone dev’essere stata la condanna a morte dell’amato maestro Socrate da parte di demagoghi capaci solo di soddisfare le esigenze di una popolazione ottusa e facile alle sollevazioni. Per Platone, Socrate era stato assassinato dalla democrazia ateniese. Era stata messa a morte la persona più retta e virtuosa. Non c’è da meravigliarsi che egli fosse scettico riguardo alla democrazia.
Le esperienze giovanili s’incisero profondamente nel cuore di Platone donandogli una rara capacità di penetrazione della natura umana e della società. Il suo dettagliato e a tratti comico ritratto della democrazia che ha l’innata tendenza a trasformarsi nel suo esatto opposto, la tirannia, è un capolavoro di razionalità dotato di grande capacità persuasiva.
Questo ci porta al paradosso della libertà. I sostenitori della democrazia, dice Platone, affermano che la libertà è la più grande virtù della democrazia e che perciò quest’ultima è l’unica condizione adatta agli esseri umani, la cui natura è essenzialmente libera. Ma la democrazia, autorizzando l’insaziabile ricerca della libertà, alimenta un gran numero di desideri che gradualmente e insidiosamente «s’impadroniscono della fortezza dell’anima del giovane» e lo conducono lungo la china dell’arroganza. La modestia viene liquidata come stupidità, si ha vergogna della temperanza perché non è virile, la moderazione e la parsimonia nelle spese e nei consumi vengono considerate noiose e meschine.
Infine si perde il controllo della situazione e si ricerca un forte capo in grado di restaurare l’ordine. Fra tanti “inutili fuchi” si cerca quell’unica creatura dotata di pungiglione che dapprima emerge come leader delle masse ma ben presto cede al diabolico fascino del potere e si trasforma inevitabilmente in un tiranno. Come osserva acutamente Platone, «sembra che l’eccesso di libertà, negli Stati come negli individui, sia destinato soltanto a tramutarsi in eccessiva schiavitù» per mano di un dittatore.
È un riassunto un po’ semplicistico delle idee di Platone eppure basta a illustrare vivacemente la patologia e il paradosso della libertà che esercita un’irresistibile attrazione ma è molto difficile da gestire e continua a essere un pesante fardello da portare. Seguendo oggi le eloquenti argomentazioni della Repubblica ci si stupisce della loro veridicità e della capacità persuasiva con cui Platone sostiene la sua posizione. E della fedeltà con cui i vari capitoli descrivono i modelli che hanno generato anche i regimi totalitari contemporanei.
La violenta critica di Platone alla democrazia è stata attaccata e refutata da molti ideologi moderni che non sono teneri riguardo per esempio all’idea che donne e bambini dovrebbero essere allevati in comunità, che lo Stato dovrebbe essere dominato da un piccolo numero di filosofi o che i poeti dovrebbero essere espulsi, e denunciano gli ideali platonici come una forma estrema di comunismo.
Il filosofo francese Alain è probabilmente l’interprete più fedele delle argomentazioni platoniche quando si chiede se mai qualcuno ha cercato di interpretare la Repubblica come una guida individuale all’autocontrollo interiore. Alain vede l’opera di Platone più come un discorso sulla natura umana che sul governo, specialmente per il modo in cui ruota intorno al concetto di anima. E aggiunge che le parti che riguardano il governo sono bizzarre e inserite volutamente per confondere il lettore frettoloso. Platone preferiva non essere capito piuttosto che frainteso, afferma Alain.
La salute dell’anima
La penna di Platone passa velocemente dall’analisi delle istituzioni all’argomento della personalità umana. Subito dopo aver descritto, nell’ottavo libro della Repubblica, i cinque tipi di governo e i caratteri degli individui adatti a essi, Platone dedica il libro nono alle questioni della salute e dell’armonia dell’anima. È una naturale conseguenza del suo principale intento nella stesura dell’opera. Secondo Platone l’anima è costituita da tre parti, razionale, irascibile e concupiscente e la salute e l’armonia dell’anima si realizzano quando la parte razionale comanda e quella irascibile obbedisce. Verso la fine del nono libro appare chiaramente che Platone sta volgendo la nostra attenzione verso la “politica” interna a noi stessi. Dopo tutto non si possono analizzare le questioni di politica estera senza aver prima sistemato quelle di politica interna.
Da questo tema si passa con naturalezza a quello successivo, che costituisce l’interesse primario di Platone: l’immortalità dell’anima. La Repubblica si conclude con la storia di un eroe di nome Er, risorto dalla morte dopo dodici giorni, che parla per esperienza diretta del destino dell’anima dopo la morte. Il racconto riconferma il punto di vista di Platone secondo il quale la fede nell’immortalità dell’anima è essenziale per l’armonia e la salute di questa. E in questo punto egli si avvicina molto, pur senza entrarci realmente, al regno della religione.
Ho voluto esaminare nei dettagli la posizione di Platone perché ritengo che la sua idea di ordinamento dell’anima, in cui è la parte razionale che governa, sia fondamentale per gettare solide basi di un’epoca di democrazia basata sulla volontà popolare. Non esiste autorità, per quanto potente, che può andare per troppo tempo contro la volontà del popolo.
Ora il compito difficile che abbiamo di fronte è la trasformazione dell’energia liberatoria in energia costruttiva. Dobbiamo partire guardando dentro di noi analizzando, come sostiene Platone, lo “stato interno’” ancor più rigorosamente dello “stato esterno”.
Da tale processo di introspezione a mio avviso scaturiranno intuizioni importanti per la definizione del significato universale dei diritti umani. L’articolazione di una simile definizione servirà sia come simbolo del movimento per la libertà e la democrazia che come risposta a uno dei bisogni più pressanti del ventunesimo secolo.
L’arte della padronanza di sé
Gli effetti del padroneggiare lo “stato interiore” possono essere stupefacenti. Per esempio Leonardo da Vinci era sotto molti aspetti il prodotto di tale padronanza di sé. Totalmente libero e indipendente, non solo non era soggetto ad alcuna costrizione religiosa o morale ma non si sentiva vincolato nemmeno dalla nazione, dalla famiglia, dagli amici o conoscenti. Era un cittadino del mondo, intoccabile e insuperato.
Leonardo era figlio illegittimo e nel corso della sua vita non si sposò mai. Si sa poco della famiglia e anche i legami con la repubblica di Firenze, in cui era nato, erano deboli. Completato l’apprendistato a Firenze si recò immediatamente a Milano, dove trascorse circa diciassette anni sotto il patronato del duca Ludovico Sforza. In seguito alla caduta in disgrazia degli Sforza, Leonardo trascorse un breve periodo al servizio del duca di Romagna. Poi si trasferì a Firenze, a Roma, e di nuovo a Milano, dove lo portarono i suoi interessi o progetti.
In qualsasi circostanza o situazione Leonardo dimostrava scarso interesse a prender parte ai giudizi dei suoi contemporanei sul patriottismo o i vantaggi della fedeltà a un solo signore. Invece perseguiva uno stile di vita ideale che gli permettesse di considerare tutte le cose con distacco.
Non prestava attenzione alcuna alle seduzioni della fama e della ricchezza e tuttavia non si ribellava contro l’autorità costituita. Nella sua singolare dedizione ai propri interessi personali era impermeabile a qualsiasi convenzione mondana.
Leonardo non era una persona priva di emozioni e nemmeno mancava di virtù, ma la sua vita fu caratterizzata dalla trascendenza delle questioni mondane e dal perseguire in modo coerente e determinato la propria vocazione.
Leonardo era un genio multiforme di sorprendente versatilità e ampiezza d’interessi. Oltre che pittore era un abile scultore, ingegnere civile e inventore di una miriade di dispositivi, dalle macchine volanti agli armamenti da guerra. La stessa persona che studiava idrodinamica e fisiologia delle piante e che analizzava il volo degli uccelli possedeva anche un vivido interesse per l’anatomia umana.
Qualsiasi cosa si possa dire di Leonardo, la portata della sua mente era troppo grande per essere misurata dalle norme della società. La libertà con la quale si sollevò oltre le cure mondane ci dà un assaggio di come potrebbe essere un vero libero cittadino del mondo. La vita di Leonardo cattura lalibertà e il vigore peculiari del Rinascimento italiano.
Ciò che permise a Leonardo di raggiungere una libertà simile fu senza dubbio la sua padronanza di sé. Egli scriveva: «Non si può aver dominio più grande o più piccolo che quello su se stessi».
Era il suo principio primo, dal quale derivavano tutti gli altri. La padronanza di sé gli permise di rispondere in maniera elastica a ogni realtà. Riteneva di secondaria importanza le virtù tradizionali del suo tempo, come la lealtà o la bontà. Per esempio non ebbe scrupoli nell’accettare l’invito di Francesco I a recarsi in Francia anche se quel re era stato responsabile della caduta del suo precedente mecenate, Ludovico Sforza. Si trattò di tradimento, di mancanza di integrità? Io vedo piuttosto nell’atto di Leonardo la tolleranza che deriva dall’apertura mentale e dalla magnanimità.
La capacità di Leonardo di svincolarsi dalle convenzioni ci ricorda il concetto buddista di “trascendere il mondo”. Per “mondo” si intende il regno delle differenze tra bene e male, amore e odio, bellezza e bruttezza, vantaggio e svantaggio. “Trascendere il mondo” significa liberarsi dall’attaccamento a tutte queste distinzioni.
Il Sutra del Loto, supremo insegnamento del Buddismo, parla della necessità di guidare gli esseri viventi per «far sì che essi rinuncino ai propri attaccamenti». Nichiren, ai cui insegnamenti si ispirano le attività della Soka Gakkai, commentando il sutra afferma: «La parola rinunciare in realtà significa discernere». Non è sufficiente liberarsi semplicemente dagli attaccamenti, dobbiamo analizzarli chiaramente e attentamente per vederli per quello che sono. Dunque, “trascendere il mondo” significa costruire un forte io interiore che permetta di fare un uso corretto di ogni attaccamento.
Le ultime parole del Budda Shakyamuni furono: «Tutti i fenomeni sono transitori. Perfezionate la vostra pratica e non diventate mai negligenti». Anche Nichiren esorta a «rafforzare la tua fede giorno dopo giorno e mese dopo mese. Se ti rilassi anche solo un po’ i demoni prenderanno il sopravvento».
E in un altro brano esprime la più profonda delle verità sulla vita: «Anche uno specchio appannato brillerà come un gioiello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni derivate dall’oscurità innata della vita è come uno specchio appannato che però, una volta lucidato, diverrà chiaro e rifletterà l’illuminazione della verità immutabile» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 5).
Il distacco da ciò che è transitorio e illusorio è un segno di carattere, un altro nome per descrivere un essere umano completo. I principi che ho menzionato non sono mere astrazioni ma qualcosa che chi vuole migliorare il proprio carattere deve ricercare dentro di sé.
Josei Toda uscì dal carcere, in cui l’avevano rinchiuso per due anni le autorità militariste giapponesi, per dare avvio a un nuovo movimento umanista in Giappone. Egli era sempre concentrato sul far crescere persone di carattere, una alla volta, in mezzo alla popolazione. Ho molti cari ricordi di quell’uomo pieno di compassione, il cui amore per la gioventù non conosceva confini e che ci incoraggiava a essere grandi attori sul palcoscenico della vita.
In effetti il potere del carattere è come l’energia concentrata di un attore che si cala completamente nell’interpretazione del proprio ruolo. Una persona di notevole carattere, anche nelle circostanze più difficili mantiene sempre un aspetto composto e a proprio agio e non perde nemmeno il senso dell’umorismo. Questo non è altro che l’aver raggiunto la padronanza o il controllo di sé.
Una volta chiesero a Goethe, che in aggiunta ai suoi molteplici talenti era anche un eccellente regista teatrale, che cosa cercasse in un attore ed egli rispose: «Soprattutto controllo di sé. Un attore che non è padrone di se stesso, che non è capace di mostrarsi a uno sconosciuto nella sua luce migliore, in genere ha ben poco talento. È la sua professione stessa che richiede una continua negazione di sé».
L’idea di autocontrollo di Goethe corrisponde al concetto di moderazione nella filosofia platonica. L’autocontrollo non è soltanto una qualità essenziale per un attore ma si può dire che sia il requisito principale per lo sviluppo del carattere.
Il carattere e la “rivoluzione umana"
Il punto dunque è: «Che cosa può produrre una cambiamento nel carattere?». Nella pratica buddista coltivare la consapevolezza della propria “condizione vitale” e fare sforzi assidui e tenaci per elevarla costituisce la padronanza di se stessi, la pratica della “rivoluzione umana”.
C’è un insegnamento centrale della filosofia buddista che ha una diretta rilevanza per la questione della formazione del carattere. Il Buddismo classifica gli stati o condizioni vitali che costituiscono l’esperienza umana nei cosiddetti dieci mondi. Dal più basso al più desiderabile essi sono: il mondo d’Inferno, una condizione immersa nella sofferenza; il mondo di Avidità, in cui corpo e mente sono avvolti dalle furiose fiamme del desiderio; il mondo di Animalità, in cui si teme chi è più forte e ci si approfitta di chi è più debole; il mondo di Collera, caratterizzato dal desiderio compulsivo e costante di superare e dominare gli altri; il mondo di Umanità, una condizione tranquilla caratterizzata dalla capacità di formulare giudizi razionali; il mondo d’Estasi, uno stato colmo di gioia; il mondo di Studio, la condizione in cui si aspira all’illuminazione; il mondo di Realizzazione in cui, senza alcun aiuto esterno, percepiamo la vera natura dei fenomeni; il mondo di Bodhisattva, una condizione compassionevole in cui si cerca di salvare tutte le persone dalla sofferenza e infine il mondo di Buddità, una condizione di completezza umana e perfetta libertà.
All’interno di ognuno di questi stati si ritrova a sua volta l’intero spettro dei dieci mondi. In altre parole, lo stato d’Inferno contiene al suo interno ogni stato da Inferno a Buddità. Nella visione buddista, la vita non è mai statica bensì è un flusso costante di trasformazioni dinamiche, di momento in momento, da uno stato all’altro. Il punto fondamentale è dunque quale di questi dieci stati, che esistono in un vibrante flusso vitale, costituisce la base delle nostre vite individuali. Il Buddismo ci offre, come esistenza umana ideale, un modo di vivere basato sugli stati più alti, quelli di Bodhisattva e Buddità.
Naturalmente le emozioni – gioia, dolore, piacere e collera – sono l’ordito sul quale si dipana il tessuto della vita e noi continuiamo a sperimentare l’intera gamma dei dieci mondi. Queste esperienze però possono essere modellate e indirizzate dagli indistruttibili stati di Bodhisattva e Buddità.
La filosofia della rivoluzione umana, su cui si basa la SGI, ricorda il concetto leonardesco di dominio di sé. Traducendo in azione le nostre convinzioni noi sosteniamo le Nazioni Unite, svolgiamo molte altre attività a beneficio della pace e della cultura e, grazie a queste iniziative, contribuiamo alla società nel suo complesso. Allo stesso tempo sottolineiamo l’importanza della riforma interiore del singolo. «Il tuo maestro sei tu» affermano le scritture buddiste. «Chi altro potrebbe esserlo? Quando si acquisisce il controllo su se stessi, si è acquisito un maestro di raro valore».
E un altro brano recita: «Sii la tua stessa lampada. Conta su te stesso. Tieniti stretta la Legge come una lampada, non contare su nient’altro».
Il grande io e il piccolo io
Entrambi questi brani esortano a vivere in maniera indipendente, fedeli a se stessi e senza farsi sviare dagli altri. Ma l’“io” a cui si fa riferimento qui non è il “piccolo io” buddista, prigioniero dell’egoismo. È il “grande io” che è fuso con la vita dell’universo, attraverso la quale causa ed effetto si intrecciano fino ai confini illimitati dello spazio e del tempo.
Il grande io cosmico è simile al “sé” unificante e integrante che Carl G. Jung percepiva nelle profondità dell’io. È simile anche alla «bellezza universale con la quale ogni parte e particella è ugualmente in relazione: l’Uno eterno» di cui parlava lo scrittore Ralph Waldo Emerson.
Sono fermamente convinto che un risveglio al “grande io” su larga scala condurrà il mondo a una coesistenza creativa nel prossimo secolo. [...]
Il grande io del Buddismo mahayana è un altro modo di esprimere l’apertura e l’espansione del carattere che abbraccia le sofferenze di tutte le persone come se fossero le proprie. Questo io cerca sempre modi per alleviare il dolore e aumentare la felicità degli altri, qui, nella realtà della vita di tutti i giorni.
Solo la solidarietà che può generare una così naturale nobiltà umana spezzerà l’isolamento dell’io moderno e farà sorgere una nuova speranza per la civiltà. Inoltre il risveglio dinamico e vitale del grande io permetterà a ognuno di noi di sperimentare con pari piacere sia la vita che la morte. Come afferma Nichiren: «Adorniamo la torre preziosa del nostro essere con i quattro aspetti di nascita, invecchiamento, malattia e morte».
Se siamo sufficientemente padroni di noi stessi non ci sentiremo costretti a imporre i nostri valori agli altri e nemmeno a calpestare i costumi e i valori a loro cari. Il controllo di sé ci impedisce anche di cercare di razionalizzare tutto in termini economici, incuranti delle condizioni, delle percezioni e delle diversità degli altri paesi, impedendoci così di autorelegarci all’ignobile stregua di animali economici.
Rispetto per tutta l’umanità
Nel Sutra del Loto c’è un bodhisattva chiamato Mai Sprezzante. Egli crede che, poiché tutti gli esseri umani posseggono la natura di Budda, nessuno possa essere disprezzato, che a tutta la vita e a tutta l’umanità vada accordato il massimo rispetto. Anche quando persone tronfie e arroganti lo denunciano e lo colpiscono con bastoni e pietre, egli continua a rifiutarsi di disprezzarli, convinto che ciò equivarrebbe a disprezzare il Budda. E continua a predicare questa dottrina fino alla fine, manifestando un supremo rispetto per l’umanità in ogni sua parola o azione.
L’incrollabile convinzione del Bodhisattva Mai Sprezzante è un esempio del tipo di autocontrollo che dobbiamo sviluppare in noi stessi. Nel Sutra del Loto, la storia del Bodhisattva Mai Sprezzante è una parabola sull’essenza della disciplina buddista.
È simile anche alla tesi platonica per cui dovremmo imparare a porre le nostre anime sotto il controllo della “parte razionale” e illustra l’importanza dell’autocontrollo come virtù universale di tutta l’umanità e requisito primario di un mondo senza guerre.
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