venerdì 26 dicembre 2014

Buddismo e Società n.95 - novembre dicembre 2002
Saggi
Sette sentieri per l'armonia globlale
La via della comunità
di Daisaku Ikeda


Le persone che si dedicano ad acquisire padronanza di sé e a sviluppare il dialogo possono esercitare un grande influsso sui valori che stanno alla base degli attuali sistemi economici, politici, educativi, culturali e religiosi delle rispettive comunità. In questo articolo, che corrisponde al quarto capitolo del volume For the Sake of Peace, Daisaku Ikeda sostiene che all’efficienza economica e alla ricerca del profitto si devono sostituire scambi educativi e culturali che trascendano religione, razza e nazionalità

Economia globale e identità culturaleCiò che mi preme, da buddista, è come affrontare il problema dell’identità, in quanto sono convinto che l’identità corretta di un vero cittadino del mondo si dovrebbe basare su una coscienza globale se non addirittura cosmica. È inevitabile che un’economia senza confini produca una cultura consumistica omogenea e standardizzata. Ma l’incapacità dello spirito umano di accontentarsi dell’identità impersonale di consumatore genera inevitabilmente attriti che a loro volta alimentano il particolarismo.
Ne parla Benjamin R. Barber della Rutgers University nel suo libro dal titolo provocatorioJihad vs McWorld. Secondo Barber il mondo attuale si divide in McWorld, un parco a tema globale e omogeneo la cui forza trainante è «l’universalismo della motivazione del profitto (con la politica commerciale che l’accompagna)» e il «campanilismo dell’identità etnica (con la politica del rancore che l’accompagna)»1.
Dubito seriamente che sia consigliabile usare il termine islamico jihad come sinonimo generale di particolarismo e tuttavia nel ragionamento seguente adotterò il linguaggio del professor Barber perché evidenzia in maniera concisa le due tendenze contraddittorie del nostro mondo. 
Fra McWorld e jihad non può esistere una demarcazione netta. Fintanto che ricercheranno il significato della loro vita gli esseri umani non potranno accontentarsi di vivere in una sterile società dei consumi e d’altro canto il campanilismo non potrà evitare la distruzione dell’ambiente globale né arrestare la marea dell’economia globale. Perciò siamo fatalmente destinati ad affrontare una crisi di identità che deriva dall’abitare in una miscela di questi due mondi.
In termini più profondi, il mondo attuale è dominato da quelli che il Buddismo chiama i “tre veleni”: avidità, collera e stupidità e, finché continueremo a vagare nelle tenebre dell’ignoranza, non troveremo mai la luce che ci conduca fuori dalla crisi.
Per la formazione di una democrazia globale sono indispensabili cittadini con una visione mondiale. Barber ripone grandi speranze nei cittadini che non rimangono chiusi nel proprio spazio privato ma cercano in maniera attiva e indipendente di partecipare agli affari pubblici. Egli definisce questo spazio di partecipazione “pubblico” e scrive: «La creazione di uno spazio pubblico è il compito di una società civile. Solo in esso potranno emergere tendenze che favoriscano la democrazia e contrastino il canto delle sirene del McWorld. Solo in uno spazio pubblico potranno svilupparsi comunità in grado di rispondere al bisogno umano di interazione su base locale ed etnica in modi che rimangano aperti all’inclusione e a sentimenti civici cosmopoliti».2
Lo spazio pubblico, il campo d’azione dei cittadini, è una zona intermedia fra il governo e il settore privato. Ma nell’atmosfera sterile della società urbana contemporanea sviluppare questo tipo di ambiente vitale è estremamente difficile. Barber non offre soluzioni chiare anche se trova uno spunto nelle vivaci discussioni che caratterizzavano le riunioni cittadine agli albori del New England e che rappresentano l’ideale della democrazia americana.
Alle origini dello spirito americano c’è una nazione sperimentale popolata da persone provenienti da tutto il mondo. Gli Stati Uniti sono una società globale in miniatura e prefigurano, nel bene e nel male, l’umanità di domani. Come società multirazziale, gli Stati Uniti stanno affrontando gravi problemi. Ma sono molto meno preoccupato degli aspetti negativi della situazione di quanto sia interessato invece alla vitalità, all’energia e alla creatività generata dalla cooperazione e dalla competizione di tanti popoli diversi. Nonostante le difficoltà, il fatto stesso che continui a esistere un paese come l’America, terra di giovani energie, libertà, democrazia ed eguaglianza, ci fa ben sperare nella possibilità di trovare una via per la pace globale.

Lo stato umanistico
Parlare di economia umanistica conduce inevitabilmente a chiedersi quale dovrebbe essere la struttura politica di uno stato umanistico. Nel 1974, mentre stavo preparando la mia prima visita in Unione Sovietica, molti in Giappone criticarono la mia decisione: «Perché mai un educatore buddista deve andare a visitare una nazione la cui ideologia stessa rifiuta la religione?» chiedevano. La mia risposta fu che sarei andato «perché là c’erano persone». Adesso, quasi tre decenni dopo, in una nuova realtà mondiale post-ideologica, è ancora più importante concentrarsi anzitutto sugli esseri umani e sulla maniera corretta di vivere. Lo spiega molto bene Aleksandr Solzhenitsyn: «La struttura dello stato è secondaria rispetto all’atteggiamento nelle relazioni umane. Se c’è integrità umana, qualsiasi sistema onesto è accettabile, ma se alla base c’è il rancore e l’egoismo umano, anche la democrazia più totale risulterà intollerabile. La mancanza di senso di giustizia e di onestà da parte delle persone verrà a galla sotto qualsiasi sistema».3
Un sistema politico di per sé non garantisce niente. I paesi dell’Europa orientale avranno anche spodestato governi oppressivi per conquistarsi libertà e (almeno così sperano) prosperità, eppure niente fa presagire quale sarà la direzione futura. Le rivolte servono a dimostrare il grande potere popolare e a ispirare altri popoli oppressi in ogni parte del mondo, ma non sono necessariamente garanzia di quel prospero futuro che in teoria promettono le società liberali del mondo occidentale, peraltro invece afflitte da numerosi problemi.
La realtà dei paesi capitalisti avanzati occidentali raramente permette eccessi di entusiasmo. Come indica la battaglia contro le droghe negli Stati Uniti, le malattie che devastano le nostre anime sono in stato assai avanzato. La minaccia nucleare può essere in parte diminuita ma non c’è neanche un momento da perdere per trovare soluzioni alla devastazione dell’ambiente, al depauperamento di preziose risorse naturali, alla crisi energetica e all’esplosione demografica. Laddove libertà e ricchezza dovrebbero essere usate per promuovere l’aspetto migliore dell’umanità, sembra che invece funzionino in maniera contraria. E va tenuto a mente che libertà e ricchezza possono a loro volta esigere un pesante tributo.
Anche con la fine della guerra fredda il senso di sicurezza a livello mondiale non è aumentato. Negli ultimi anni sempre più governi militari hanno ceduto il passo a forme più democratiche, una tendenza che alimenta nuove speranze per molte persone. Ma il rischio della guerra non è diminuito perché non esiste attualmente una tendenza dominante a livello mondiale verso il disarmo e nessun progresso è stato fatto verso l’abolizione della guerra come istituzione. Dove la guerra esiste, anche solo come remota possibilità, non vi sarà mai una comunità veramente umanistica. 
Per questo il passo più importante per costruire una simile comunità è l’educazione. 

Educazione per una comunità mondialeAffinché il XXI sia un secolo di speranza, gli sforzi per costruire una comunità mondiale senza guerra devono essere affiancati ovunque dall’incentivo allo sviluppo delle risorse e delle potenzialità umane. Apprezzo i risultati conseguiti dall’UNESCO ma penso che ormai sia tempo che le Nazioni Unite nel loro complesso si impegnino in una vasta gamma di iniziative educative su scala globale. L’enormità dei problemi che dobbiamo risolvere su scala globale, fra cui povertà, fame, esplosione demografica e condizione ambientale richiede di essere affrontata dal punto di vista dell’umanità nel suo complesso. I dati indicano che circa novecento milioni di persone, pari al trenta per cento della popolazione mondiale di età superiore ai quindici anni, è analfabeta. La maggioranza di esse abita nei paesi del terzo mondo. Sebbene dopo la seconda guerra mondiale le spese militari in tutto il mondo avessero continuato a crescere, il disgelo nelle relazioni Est-Ovest ha invertito tale tendenza contribuendo a ridurle ai livelli più bassi riscontrati dal dopoguerra a oggi. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite basterebbe circa il cinque per cento dell’investimento annuale mondiale a scopo difensivo per garantire abbastanza cibo, acqua, assistenza medica e istruzione a tutti gli abitanti del pianeta per lo stesso periodo. Se questo è tutto ciò che occorre, non dovrebbe essere impossibile ridurre armamenti e spese difensive del cinque per cento.
Il problema dell’educazione va ben oltre lo scopo di base di imparare a leggere e a scrivere. Dobbiamo escogitare metodi per far emergere il potenziale latente di popoli che non dispongono nemmeno delle più elementari tecniche per la sopravvivenza e indirizzare quel potenziale verso la costruzione di una comunità globale.
I problemi inerenti all’educazione naturalmente sono complessi e per trovare rimedi occorre un’immensa pazienza e perseveranza. Spesso i programmi per l’ampliamento dell’educazione calati dall’alto sono falliti perché mancavano dell’impulso necessario. Per elevare il livello dell’educazione globale bisognerà dare grande sostegno a quelle iniziative che nascono dall’interno, dal basso in alto.
Credo fermamente nel potenziale latente della gente. E per risvegliare le persone al loro stesso potere occorre l’educazione. Le persone hanno bisogno di maestri. Oggi si sente il bisogno di una forma globale di educazione, un corso di studi che comprenda la conoscenza di questioni che al momento sono d’importanza vitale come l’ambiente, lo sviluppo, la pace e i diritti umani.
L’educazione alla pace dovrebbe rivelare la crudeltà della guerra, evidenziare il pericolo degli armamenti nucleari e insistere sull’importanza della riduzione degli armamenti. L’educazione allo sviluppo dovrebbe trattare dell’eliminazione della fame e della povertà e studiare l’istituzione di una struttura assistenziale per i circa cinquecento milioni di persone che attualmente soffrono di malnutrizione e per i due terzi delle nazioni mondiali impoverite. Il tema dell’educazione ambientale dovrebbe essere l’armonia fra umanità e natura. Per esempio, è importante sviluppare precise conoscenze dei danni che le esplosioni nucleari arrecano all’ecosistema. Infine il pilastro dell’educazione ai diritti umani dovrebbe essere di imparare a rispettare la dignità dell’individuo. In queste quattro categorie fondamentali l’educazione deve trascendere i confini nazionali e ricercare valori applicabili a tutta l’umanità.

Educazione ed esclusivismo etnico
L’esclusivismo etnico è un grande ostacolo per la creazione di una comunità globale. All’inizio del terzo millennio ci troviamo ancora faccia a faccia con la pulizia etnica, un abominevole fantasma che risorge dalla tomba cinquant’anni dopo. Gli atti di barbarie compiuti durante la guerra in Kosovo evocano gli incubi dell’olocausto e, quando ci soffermiamo a considerare che tali atrocità hanno radici in rivalità etniche vecchie di centinaia d’anni, siamo costretti a mettere in discussione l’idea stessa di progresso. A volte l’animale umano sembra davvero incurabile e non sono l’unico ad avere questa sensazione.
Nell’ultimo capitolo di Delitto e castigo, Dostoevsky descrive il giovane e sensibile Raskolnikov, confinato in Siberia per aver ucciso una vecchia usuraia. Nei suoi sogni immagina il violento scoppio di una strana malattia contagiosa:
«Era apparso un nuovo tipo di trichine, sostanze microscopiche che abitano nel corpo degli uomini… Gli infetti venivano immediatamente colpiti dal morbo e impazzivano. Mai nessuno si era considerato tanto intelligente e nel giusto al di là di qualsiasi dubbio, quanto gli infetti consideravano se stessi».4
Così la gente, assolutamente certa delle proprie convinzioni comincia a cercare i nemici fuori di sé e a tessere una serie di alleanze poi infrante avviandosi così sulla strada in un’interminabile e reciproca carneficina. Alla fine gli unici a salvarsi saranno «i puri, gli eletti, i predestinati a dare inizio a una nuova razza di uomini e a una nuova vita, a rinnovare e purificare la terra…».5
Questo è l’incubo che tormenta costantemente il sofferente Raskolnikov.
Oggi vediamo gente che, ubriaca di slogan come la “pulizia etnica”, versa impunemente sangue umano. Di sicuro sono stati infettati dalle “trichine” di Dostoevsky. Anch’essi continueranno a uccidersi a vicenda senza accennare a fermarsi finché l’umanità non sarà sterminata (e una “nuova razza” verrà creata!). La loro è una malattia mortale, nel senso più letterale del termine, un ineluttabile divorante male dell’ego. 
Ed è preoccupante che l’umanità non sia ancora sufficientemente immune nei confronti di questo male.
La ragione principale per cui le relazioni fra persone e culture diverse degenerano nel tipo di atrocità simboleggiato dalla pulizia etnica risiede in una mentalità chiusa e ristretta. Persone di diversi gruppi etnici, che solo fino a pochi giorni prima erano riuscite a vivere fianco a fianco senza particolari problemi evidenti, improvvisamente si saltano alla gola come se l’odio fosse la loro unica motivazione. È difficile credere che i conflitti e le dispute sanguinose a cui assistiamo oggi siano esplosi unicamente perché sono state rimosse le strutture frenanti dell’ideologia e dell’autoritarismo. Nemmeno le difficoltà economiche possono spiegarli, anche se forse possono aver innescato la miccia, perché se fossero state l’unica causa non sarebbe stato necessario giungere all’omicidio. Possiamo soltanto concludere che la vera causa è più profonda, risiede in una morbosa chiusura mentale le cui radici affondano nella storia della civiltà.
Ne parlerò più dettagliatamente in seguito, ma ritengo che l’essenza del bene sia l’aspirazione all’unità mentre il male va verso la divisione e la separazione. La funzione del male è sempre quella di causare divisioni, provocare lacerazioni nel cuore umano, rescindere i legami tra familiari, colleghi, amici e conoscenti, distruggere il senso di unione dell’umanità con la natura e l’universo. Dove regna la divisione gli esseri umani si isolano per divenire vittime dell’infelicità e della disperazione.
Una persona dal cuore chiuso vive incapsulata nel guscio di egoismo e autocompiacimento che si è costruita. Questa azione triste e insensata di separare l’io e l’altro è il marchio di fabbrica del male così come l’ho definito qui e questa profonda tendenza, che accompagna tutta la storia umana, nella nostra epoca si è manifestata in maniera singolare, come una sorta di tratto fatidico della nostra civiltà. 
Senza dubbio nazionalismo, identità etnica e altri slogan dei quali attualmente si fa grande uso e abuso sono oggetti ideali per il fanatismo e la facile credulità. Questo perché concetti come “razza” ed “etnia” sono in gran parte fittizi e le identificazioni etniche sono state specificamente costruite in maniera artificiale con un mezzo o con l’altro. Può sembrare un’affermazione estremista ma ritengo che le circostanze richiedano di parlar chiaro: in un mondo in cui l’identità nazionale ed etnica è diventata fonte di brutale violenza occorre una revisione radicale della definizione stessa di questi concetti.
I sentimenti nazionalisti sono stati coltivati intenzionalmente come parte integrante del processo di costruzione dei moderni stati nazionali; sono mezzi per forgiare l’unità della cittadinanza e alimentare i legami spirituali. Nella maggior parte dei casi la loro autenticità è fortemente sospetta. Paesi come l’Inghilterra e la Francia, considerati il modello degli stati nazionali moderni, sono più diversi dal punto di vista etnico e razziale di quanto non lo sia – per esempio – il Giappone. Non molti secoli fa erano ancora federazioni di piccoli gruppi tribali con ben pochi legami fra loro.
Eppure anche le nazioni più rigide possono invertire i propri impulsi esclusivisti.
Per esempio il Sud Africa è un esempio di successo di una comunità umanistica. Ho potuto incontrare due volte l’ex-presidente del Sud Africa Nelson Mandela e una volta l’allora vice-presidente Frederik de Klerk. Nei miei dialoghi con entrambi ebbi la forte impressione che dietro il tentativo di abolire l’apartheid ci fosse il desiderio di superare odio e sfiducia e di impegnarsi in un dialogo autentico. Un energico dialogo in cui ogni parte esercita il massimo sforzo per capire la posizione dell’altra è il fattore principale per non cadere nella violenza e nel caos e far risplendere invece la bellezza della tolleranza umana.
Nel giugno 1992 de Klerk osservò a proposito dell’apartheid: «Noi desideriamo creare una società in cui tutti siano vincitori, al posto di una divisa fra vincitori e vinti che si contrappongono e si attaccano a vicenda per perseguire i propri interessi egoistici».6
La decisione di non creare perdenti è fondamentale per risolvere la diffusa piaga dei conflitti civili che affligge il mondo attuale. Finché vi sarà anche solo qualche perdente, qualcuno che ha assaggiato l’amaro gusto della sconfitta, non si potrà mai sperare in una società veramente stabile in cui siano stati completamente eliminati i semi di un futuro conflitto.
Credo che l’educazione sia l’unico strumento che abbiamo per guarire le ferite del passato e costruire società rivolte al futuro in cui ognuno sia vincitore. A prima vista l’educazione può apparire una maniera indiretta di affrontare questi problemi, ma io sono convinto che in realtà sia il mezzo più efficace per inculcare lo spirito della tolleranza. Solo imparando possiamo aprire le finestre spirituali dell’umanità, liberando la gente dai confini della propria visione del mondo etnica o di gruppo. L’identità etnica è profondamente radicata nell’inconscio umano ed è cruciale che sia mitigata da incessanti sforzi educativi che incoraggino un senso dell’umanità più vasto e universale.
Gli sforzi del Sud Africa per creare una “nazione arcobaleno” indubbiamente daranno speranza anche ad altre nazioni africane e per estensione a tutti coloro che soffrono a causa delle divisioni etniche. L’incessante battaglia del Sud Africa a favore della tolleranza è espressione di quella filosofia di coesistenza che i nostri tempi richiedono. La comunità internazionale non dovrebbe lesinare il proprio sostegno a quest’impresa senza precedenti.
Via via che osservo gli sviluppi in Sud Africa, mi viene in mente che la vera fonte della felicità umana sta nella riconciliazione e nell’armonizzazione di gruppi diversi, non nella loro divisione o nel conflitto. È naturale che le persone tendano a unirsi fortemente in gruppi per alleviare il disagio che deriva da un vuoto di identità, tuttavia sospetto che la coscienza nazionale sia in larga misura una finzione creata in maniera semi intenzionale nel corso della storia moderna.

Le forme esteriori e la rivoluzione interioreAccanto a una delicata sensibilità che gli permetteva di cogliere l’eterno, il poeta bengali Rabindranath Tagore aveva una profonda comprensione della natura umana. NellaReligione dell’uomo egli riflette sulla natura dei conflitti etnici, quella che potremmo chiamare l’aporia della storia umana: «In ogni epoca i nostri più grandi profeti hanno conseguito un’autentica libertà dell’anima prendendo coscienza dell’affinità spirituale universale dell’uomo. E tuttavia le razze umane, a causa delle condizioni geografiche esterne, hanno sviluppato nel loro isolamento individuale una mentalità disgustosamente egoista».7
Tagore mette all’indice con forza la brutalità e la disumanità che può esplodere in qualsiasi momento, date le condizioni appropriate. E ci lascia il seguente monito: «La vastità del problema razziale che abbiamo oggi di fronte o ci obbligherà a un allenamento per mantenere una buona salute morale senza accontentarci della mera efficienza esterna, oppure genererà complicazioni tali da impedirci ogni movimento e condurci alla morte».8
Sono passati molti decenni da quel grido spirituale del grande poeta: più i fenomeni storici regressivi divengono manifesti, più illuminanti ci appaiono le sue parole. Gruppi contrastanti possono anche accordarsi per quanto riguarda l’“efficienza esterna” nella sfera politica o economica. E sicuramente comprendersi in questi campi è importante. Ma se non si affronta il problema della “buona salute morale” posto da Tagore, inevitabilmente alla minima provocazione le ostilità riesploderanno.
Nel dicembre 1970 scrissi un lungo poema dedicato ai giovani. Ancora non si erano spenti gli echi delle violente manifestazioni studentesche scoppiate in Giappone e in altri paesi nel 1968 e nel 1969 e solo un mese prima il suicidio secondo il rituale tradizionale del notoromanziere Yukio Mishima aveva sconvolto il paese. Insomma era un periodo caratterizzato da intensi turbamenti e diffusi tumulti. La mia poesia era un accorato appello ai giovani in cui esprimevo la mia visione del secolo XX e del XXI.

Ciò che le persone sognano
di portare con sé nel XXI secolo
non è una riorganizzazione
delle forme esteriori.
Esse desiderano
una vera rivoluzione
da realizzare dentro di sé,
a piccoli passi e
in un’atmosfera di pace,
basata sulla filosofia e
sulle convinzioni
di ogni individuo.
Per questo ci vogliono
giudizi lungimiranti
e un sistema profondo di princìpi.
La definirei una rivoluzione totale.
È ciò che noi chiamiamo
kosen-rufu.9Il XX secolo è stato caratterizzato dalla ricerca ossessiva e incessante di soluzioni attraverso riforme sociali, ovvero in un rimodellamento delle “forme esteriori”. Ma il compito primario che nel XXI secolo non possiamo più evitare di intraprendere è la rivoluzione dentro di noi, la «vera rivoluzione da realizzare dentro di sé a piccoli passi e in un’atmosfera di pace». In questo poema ho espresso la mia ferma convinzione che il punto di partenza per qualsiasi cosa si faccia d’ora in avanti deve essere anzitutto reindirizzare il nostro obiettivo primario.
Mi appello ai giovani affinché guidino diversamente le loro energie, e che invece di cominciare a cambiare l’esterno, credendo che di conseguenza avverrà un cambiamento anche all’interno, operino una coraggiosa inversione di rotta – di cui si sente sempre di più l’esigenza negli ultimi trent’anni – che faccia del cambiamento interiore la chiave per trasformare il mondo circostante. 
Nel 1970 i movimenti di estrema sinistra di cui faceva parte il movimento studentesco cominciavano a dare segni di sfaldamento e declino, dopo la delusione causata dall’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Nondimeno l’esortazione a riformare il mondo con la rivoluzione sociale resisteva tenacemente entro le mura accademiche. La ben nota tesi marxista, ora un po’ in declino, secondo la quale «non è la coscienza che determina l’esistenza, bensì è l’esistenza che determina la coscienza» a quell’epoca faceva furore fra gli opinion leader di sinistra.
Nel tumulto di allora non potevo fare a meno di percepire nel momentaneo fervore anarchico un vago e strisciante sentore di nichilismo e decadenza. Sentivo che dovevo appellarmi ai giovani perché scegliessero una nuova coraggiosa direzione per i propri pensieri e azioni.
I decenni successivi videro immense tragedie. Il secolo che aveva riconosciuto unicamente la validità della rivoluzione delle “forme esteriori” è stato essenzialmente un secolo di guerre e di rivolte il cui crudele tributo è davanti agli occhi di tutti. È particolarmente triste osservare i postumi del crollo dell’Unione Sovietica e dei suoi paesi satellite in parte perché, a differenza del puro vandalismo nazista, il socialismo cercava di legittimare il sovvertimento delle “forme esteriori” con complicati ragionamenti teorici e in parte perché aveva attratto molti giovani coscienziosi e idealisti indignati dalle contraddizioni interne al capitalismo.
Le parole di Chingiz Aitmatov, lo scrittore kyrgyzo con cui ho dialogato in molte occasioni, sono indimenticabili:
«Un consiglio paterno: rivoluzione significa sommossa. Giovani non fidatevi delle rivoluzioni sociali! Per le nazioni, il popolo e la società non sono che follia di massa, violenza di massa e catastrofe totale. Noi russi l’abbiamo compreso a fondo. Cercate invece le riforme democratiche che portino a una evoluzione priva di spargimenti di sangue e alla graduale ricostruzione della società. L’evoluzione richiede più tempo, pazienza e compromessi della rivoluzione. Richiede l’edificazione e la promozione della felicità, non la sua istituzione forzata. Prego Dio che le giovani generazioni imparino dai nostri errori!».10
Ma anche le società liberali non possono riposare sugli allori liquidando le tragedie del socialismo come «fuochi sull’altra sponda». Il crollo del socialismo potrebbe essere interpretato come una dimostrazione della relativa superiorità del liberalismo e del capitalismo e tuttavia le condizioni in cui versano le cosiddette società libere non permettono certo di cantare vittoria. Il liberalismo forse non è giunto agli estremi ideologici del socialismo, ma è stato egualmente ossessionato dalla rivoluzione delle forme esteriori.
In realtà, come ci mostra chiaramente la situazione delle democrazie liberali negli ultimi anni, non otterremo mai il nostro scopo solo con la ricerca della sicurezza secolare e delle riforme esterne.
Finiremo col trascurare la spiritualità e la coltivazione del proprio carattere e, quando ciò accadrà, il movimento per difendere la dignità umana degenererà in un movimento per opprimerla e danneggiarla.
Qual è il ruolo di una religione viva nella società attuale? Quali sono le condizioni necessarie per una religione mondiale? Ogni religione è chiamata a riflettere attentamente su queste domande e a formulare risposte. 
Possiamo dire che il ruolo intrinseco della religione sia unire i cuori umani che sono divisi, attraverso la spiritualità universale. Era questo l’obiettivo che aveva in mente Toynbee quando scriveva: «In un’epoca in cui sono venute improvvisamente in stretto contatto persone con tradizioni, credenze e ideali radicalmente diversi, la sopravvivenza dell’umanità richiede la disponibilità a vivere insieme e ad accettare che esista più di una via che conduce alla verità e alla salvezza».11
Questa disponibilità a vivere e a lasciar vivere si rafforza maggiormente quando adottiamo la posizione attiva di cui parlava Makiguchi, secondo la quale facendo del bene agli altri lo facciamo a noi stessi. Questo è il punto di partenza per la formazione del globalismo nel XXI secolo. Ed è anche la seria e difficile sfida che nessuna religione mondiale può ignorare se vuole essere degna del proprio nome e adempiere a quello che ritengo sia il vero ruolo della fede: una fonte di profonda energia spirituale in grado di alimentare e sostenere un globalismo che rechi benefici reciproci a tutti.
Toynbee sottolineava l’importanza di accettare che esista più di una via per la verità e la salvezza. È stato ormai ampiamente assodato che l’ostinato attaccamento ai dogmi religiosi non fa che esacerbare lo scontro e la rivalità fra i popoli, perpetuando una lunga e sanguinosa storia di dissidi e persecuzioni religiose.
Ovviamente Toynbee non intendeva dire che le persone non dovrebbero esprimere le proprie opinioni sul mondo, l’universo e la fede religiosa. Siamo liberi di affermare le nostre idee ma solo nella misura in cui ciò sia compatibile con lo spirito di vivere e lasciar vivere, lo spirito di tolleranza e nonviolenza che noi della SGI consideriamo il cuore dell’umanesimo. Anche se Toynbee ha contemplato la possibilità che un giorno l’umanità sia unita dalla stessa fede, ha comunque dato severe indicazioni per la propagazione religiosa, dichiarando che l’accettazione di una nuova fede può essere solo il risultato della libera scelta di innumerevoli individui».12
Quest’idea coincide con quella di Makiguchi di collaborazione “spontanea e senza riserve”. 
È lo spirito religioso che sostiene e ispira le persone a ricercare il bene e il valore nella propria vita; inoltre il sentimento religioso offre loro un mezzo per accedere alle risorse interiori che consentono di trascendere se stessi. Era esattamente quello che Tagore stava cercando ed è anche una delle condizioni che una religione deve soddisfare se intende contribuire a un futuro più pieno di speranza.
«La vita è una lotta» scriveva Johan Huizinger, una lotta incessante fra bene e male o, in termini buddisti, fra il Budda e il demone. Libertà e indulgenza, democrazia e demagogia, pace e sottomissione, diritti umani e fanatismo sono termini opposti e a un tempo prossimi l’uno all’altro come le due facce di una moneta. Abbassare anche di poco la guardia in questa lotta equivale a rischiare di cadere sul versante opposto.
Per questo, adesso come trent’anni fa, continuo ad appellarmi ai giovani esortandoli a praticare l’autodisciplina e a coltivare il proprio io interiore. Il signor Toda soleva dirci: «Da giovani dovreste sperimentare ogni tipo di difficoltà, costi quel che costi» e, se ripenso alla mia giovinezza, vedo che quello è stato anche il mio motto. È la rivoluzione interna che getterà un ponte di speranza nel XXI secolo per superare tutte le numerose tragedie del XX causate da un univoco e ostinato attaccamento alle riforme esterne.
Per raggiungere l’unità globale ci sarà sempre più bisogno di scambi educativi e culturali che trascendano religione, razza e nazionalità. Poiché la competizione, nel suo senso costruttivo, sprona al progresso, la maniera migliore per realizzare l’unità mondiale e la pace è che le nazioni competano fra loro in attività veramente utili al miglioramento e alla formazione del carattere.
Invece di competere per ottenere la superiorità militare potrebbero per esempio fare a gara nel formare validi cittadini globali.
Il nostro scopo dovrebbe essere instillare un’etica di cittadinanza mondiale. Come nel caso di Socrate, definendoci cittadini del mondo possiamo ridare vita, nella comunità globale, alle virtù ormai un po’ sbiadite del coraggio, dell’autocontrollo, della devozione, della giustizia, dell’amore e dell’amicizia e farle palpitare nuovamente nel cuore di tutte le persone.

NOTE
1) Benjamin R. Barber, Jihad vs. McWorld, New York, Ballantine Books, 1996, pp. 219-20.
2) ibid., p. 277.
3) Aleksandr Solzhenitsyn, Rebuilding Russia: Reflections and Tentative Proposals, trad. Alexis Klimoff, New York, Farra, Straus and Giroux, 1991, p. 49.
4) Fyodor Dostoevsky, Crime and Punishment, New York, Penguin Books USA, 1968, p. 524.
5) ibid., p. 525.
6) Frederik de Klerk and SGI President Meet, Seikyo Shimbun, % giugno 1992, p. 2.
7) Rabindranath Tagore, The Religion of Man, New York, The MacMillan Company, 1931, p. 154.
8) ibid., p. 156.
9) Daisaku Ikeda, Song of Youth, Songs from My Heart, New York, Weatherhill, 1997, p. 21.
10) Daisaku Ikeda and Chingiz Aitmatov, Oinaru tamashii no uta (Poemi del grande spirito), vol. 1, trad. Richard L. Gage, Tokyo Ushio Shuppansha, 1995, p. 81.
11) Arnold J.Toynbee, Hiseiyo Bunmei no Shorai (Il futuro delle civiltà non-occidentali), Asahi Shimbun, 1957.
12) ibid.

Nessun commento:

Posta un commento