Il buddismo del piccolo o del grande veicolo
Fondato secondo la tradizione da Siddhartha, detto il Buddha («
l'illuminato ») all'inizio del v secolo a.C., il buddismo si può considerare la
più vitale delle filosofie-religioni elaborate nell'antica India: attraverso i
secoli esso si è evoluto e modificato in vari sistemi indipendenti, la cui
storia non abbraccia soltanto l'India (donde il buddismo scomparve alla fine
del XII secolo per effetto dell'invasione musulmana) ma la Cina (dove esso
venne introdotto nei primi secoli dell'era volgare) e tutti i paesi dell'Asia
sudorientale.
Riesce impossibile oggi, dopo così lunghe e complesse vicende, distinguere con esattezza quali siano stati gli insegnamenti originali del Buddha e quali le aggiunte ed interpolazioni dei discepoli. Della stessa figura storica del Buddha siamo informati solo da biografie agiografiche e ricche di leggende, interessate soprattutto a due momenti della sua esperienza: l'illuminazione e gli ultimi giorni precedenti il nirvana. Ciò che sembra certo è che Siddhartha (563-483 ca. a.C.), chiamato Gautama dal nome dell'avo, e nato da famiglia principesca, non lasciò alcuna opera scritta --- come Socrate in Grecia e Confucio in Cina -- e che i suoi Discorsi vennero raccolti e tramandati dai seguaci.
Già da tempi molto antichi si sentì la necessità di riesaminare in concili i punti controversi del suo insegnamento, finché il canone buddista trovò la sua definitiva redazione nel III concilio (245 a.C.), tenutosi nel periodo in cui, sotto la protezione dell'imperatore Asoka (274-236 a.C.), il buddismo si trasformò da piccola setta di asceti in religione di tutto il paese. Non sappiamo però con sicurezza se tale redazione sia quella in lingua pali (un dialetto indiano) giunta fino a noi. Questa comprende, accanto agli insegnamenti attribuiti al Buddha, una serie di regole monastiche e di spiegazioni dottrinali di origine più tarda.
La comunità buddista non rimase a lungo unita. La libertà di indagine e di interpretazione, favorita dalla mancanza di una chiesa ufficiale, condusse presto alla formazione di diversi indirizzi e correnti, che peò, malgrado le differenze e le polemiche dottrinali, si mantennero in contatto fra loro, ed avvenne persino che monaci di sette diverse vivessero in armonia negli stessi conventi.
Tralasciando gli sviluppi più propriamente religiosi ed esoterici del buddismo — come il « veicolo adamantino » ed il tantrismo che, diffondendosi soprattutto fra il v ed il x secolo d.C., associarono al buddismo metodi magici e innumerevoli divinità grandi e piccole __ ci occuperemo qui dei due più importanti indirizzi filosofici del buddismo indiano: il « piccolo veicolo », che meglio ha conservato l'aspetto ascetico e dottrinale del primo buddismo ed è oggi continuato in Indocina, a Ceylon ed in Birmania, ed il « grande veicolo », in cui invece prevalsero tendenze mistico-metafisiche, e vive ancor oggi nel buddismo cinese e giapponese.
A differenza sia della speculazione vedica che del giainismo, il buddismo già nella sua formulazione più antica (il « piccolo veicolo » o hinayana) non ammetteva l'esistenza di un'anima. Oltre alla corporeità, alla percezione e alla sensazione, l'individuo avrebbe un principio cosciente (viinana), nucleo centrale della personalità e della responsabilità umana.
Per il suo atteggiamento nettamente antimetafisico e fortemente razionalistico, la filosofia buddista non elaborò, in questa prima fase, una particolare concezione del mondo, ma si concentrò sul problema della liberazione dal samsara, la ruota della nascita e della morte, cui l'uomo è legato per la legge del karman. Ogni pensiero, per il buddismo, racchiude in sé l'opera passata e si proietta nel pensiero futuro, in una concatenazione perenne che produce i1 dolore.
La liberazione apre l'accesso al nirvana che, concepito come trascendente il mondo empirico, rappresenta nel primo buddismo un concetto limite, non definibile per mezzo del linguaggio, e che solo dai pensatori posteriori verrà interpretato come una vera e propria realtà ontologica.
L'eliminazione del karman, necessaria per raggiungere la liberazione, si ottiene attraverso la disciplina morale e la conoscenza del complesso nesso causale, del processo cioè che, iniziatosi con l'ignoranza -- senza alcun intervento divino e soltanto per responsabilità nostra -- porta al dolore, alla vecchiaia ed alla morte.
L'ignoranza (avidya) sembra avere nel pensiero buddista la funzione che nella concezione ebraico-cristiana ha il peccato: senonché mentre quest'ultimo è errore etico, l'avidya è errore intellettuale. L'ignoranza riguarda le quattro « nobili verità » proclamate dal Buddha: la realtà del mondo, transeunte ed in perpetua trasformazione, è il dolore; l'origine del dolore è il desiderio o attaccamento egoistico alla vita; la liberazione dal dolore è possibile mediante l'estinzione di tale desiderio, cioè il nirvana; esiste una via che conduce a tale estinzione.
Come già abbiamo accennato, per il raggiungimento della liberazione riveste una grande importanza la disciplina morale, che il « piccolo veicolo » ha elaborato e regolato in un ottuplice sentiero: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sforzo, retta via, retta consapevolezza e retta meditazione. Sono questi due ultimi in particolare i precetti fondamentali della ascesi buddistica, codificata nella severa regola monastica.
Verso il principio dell'era volgare il buddismo subì un processo di vasto rinnovamento: vennero composti una serie di nuovi testi, di cui alcuni presentati come rivelazioni del Buddha che non è più concepito come personalità storica, ma come incarnazione della verità e si formò quella nuova corrente del buddismo che suol venire chiamata « grande veicolo » (mahayana).
L'ideale di questa nuova forma di buddismo non è più quello statico dell'asceta che pone nel nirvana il proprio fine individuale, ma quello dinamico del bodhisattva, « colui la cui essenza è illuminazione », che, giunto sulle soglie del nirvana, rimanda la propria liberazione individuale per aiutare i non-illuminati, in uno slancio di carità che giustifica il nome di « grande veicolo ».
Una nuova importanza assume, accanto alla conoscenza, la pratica della compassione atta a realizzare al di là della salvezza individuale, la salvezza di tutti, perché il nirvana non è tale se non comprende l'intera umanità. La virtù maggiore del bodhisattva è l'« abilità nei mezzi », cioè l'abilità di portare all'alto, con parole ed azioni adatte ai loro bisogni, le potenzialità spirituali dei vari individui, che possono tutti divenire dei Buddha.
Il principale innovamento filosofico del « grande veicolo » è l'elaborazione di una metafisica coerente, per opera soprattutto della scuola madhyamika e della scuola yogacara.
Fondatore della scuola madhyamika fu Nagarjuna, una delle maggiori personalità del pensiero indiano, e non solo di quello buddista, vissuto nell'india nordoccidentale verso la metà del II secolo d.C. Il suo pensiero è esposto in forma sintetica nei 400 versi del famoso Madhyamika-karika, ma a lui sono attribuite altre numerose opere, alcune delle quali conservateci solo nella traduzione cinese.
Con una serie di serrate argomentazioni logiche, Nagarjuna dimostra che del mondo empirico non si può predicare nulla, e che tutti i concetti (ad esempio il concetto di tempo) sono contraddittori: tutte le cose non hanno una natura propria, ma sono reciprocamente condizionate, ed il loro essere individuale è solo apparente, sì che l'intero mondo del molteplice altro non è che una costruzione dell'immaginazione umana. Anche il « vuoto » in cui le cose si identificano oltre il velo delle apparenze non è un'entità reale, ma rappresenta solo l'eliminazione di tutte le illusioni provocate dalle opinioni: è l'inesprimibile, al di là di ogni designazione logica o concettuale, dell'essere e del non essere, dell'affermazione e della negazione.
Conseguenza gnoseologica di tale monismo metafisico è la teoria delle due verità: quella superiore della realtà e quella convenzionale delle apparenze.
Queste ultime, pur prive di realtà propria, possono servire per indicare metaforicamente la realtà, e sono quindi utili al fine della liberazione.
La liberazione si raggiunge con la conoscenza che tutte le cose si riducono ad un unico principio, il « vuoto »: al di là di ogni dualità l'assoluto non ci apparirà allora come esterno rispetto ai fenomeni, ma come identico al relativo, ed il nirvana ed il samsara saranno la stessa cosa.
Un'interpretazione idealistica della realtà, in opposizione al « vuoto » di Nagarjuna, dette l'altra grande scuola filosofica del buddismo del « grande veicolo », lo yogacara. Mitico fondatore della scuola fu Maytreya, vissuto forse nel IV secolo d.C.; i suoi più illustri rappresentanti furono però i fratelli Asanga e Vasubandhu, vissuti all'inizio del v secolo.
Secondo la dottrina yogacara tutto quello che esiste non è altro che coscienza, vijnana; perciò questa scuola venne anche detta vijnanavada. Gli oggetti non esistono se non in relazione con la coscienza conoscente, che è realtà assoluta, contenuta solo in se stessa e non dipendente da alcun oggetto esterno. La realtà illusoria nasce da questa realtà assoluta e incondizionata: col portare in atto la sua potenzialità, la coscienza - come dimostrano ad esempio i sogni - crea da se stessa il proprio contenuto.
Quando riusciamo a diventare consapevoli che tutto quanto esiste non è altro che coscienza, e diventiamo perciò capaci di un pensiero che sia « atto del pensiero puro », cioè della coscienza che ha per oggetto la coscienza stessa, allora il samsara ed il dolore ci appaiono come nirvana, e conseguiamo la salvezza.
L'importanza della scuola yogacara, più ancora che nella sua interpretazione metafisica della realtà, sta forse nel potente impulso elaborativo che diede alla logica indiana. Cominciata appunto con Vasubandhu, la logica buddista trovò la sua più alta espressione nelle opere di Dinnaga e di Dharmakirti, vissuti rispettivamente nel VI e VII secolo.
Secondo i logici buddisti è possibile distinguere la conoscenza discorsiva dalla conoscenza sensibile, l'inferenza dalla percezione. Nel primo momento del conoscere, momento che precede il linguaggio, si percepisce il particolare nella sua concreta individualità; nel secondo alla intuizione diretta dell'oggetto si sostituisce l'immagine discorsiva e la parola. « La sensazione è priva di costruzioni mentali. Essa è un dato immediato della propria coscienza. Le costruzioni mentali, come ognuno può sperimentare in se stesso, si basano sulla parola. »
Conosciuto prima in se stesso nella percezione sensibile, l'oggetto particolare viene poi conosciuto dall'intelletto in forme sue proprie, diverse dall'oggetto stesso e che non hanno alcuna esistenza in sé: gli universali, le parole. Il pensiero non ha per oggetto le cose, ma le parole, e non ha quindi un valore positivo, ma negativo. Pur tuttavia esso può portarci empiricamente alla conoscenza vera: « Di due raggi, uno dei quali proviene da un gioiello e l'altro da una lampada,nessuno è il gioiello; ma scambiando il primo per il gioiello, si può pervenire a quest'ultimo, e non invece se ci si affida all'altro.
Riesce impossibile oggi, dopo così lunghe e complesse vicende, distinguere con esattezza quali siano stati gli insegnamenti originali del Buddha e quali le aggiunte ed interpolazioni dei discepoli. Della stessa figura storica del Buddha siamo informati solo da biografie agiografiche e ricche di leggende, interessate soprattutto a due momenti della sua esperienza: l'illuminazione e gli ultimi giorni precedenti il nirvana. Ciò che sembra certo è che Siddhartha (563-483 ca. a.C.), chiamato Gautama dal nome dell'avo, e nato da famiglia principesca, non lasciò alcuna opera scritta --- come Socrate in Grecia e Confucio in Cina -- e che i suoi Discorsi vennero raccolti e tramandati dai seguaci.
Già da tempi molto antichi si sentì la necessità di riesaminare in concili i punti controversi del suo insegnamento, finché il canone buddista trovò la sua definitiva redazione nel III concilio (245 a.C.), tenutosi nel periodo in cui, sotto la protezione dell'imperatore Asoka (274-236 a.C.), il buddismo si trasformò da piccola setta di asceti in religione di tutto il paese. Non sappiamo però con sicurezza se tale redazione sia quella in lingua pali (un dialetto indiano) giunta fino a noi. Questa comprende, accanto agli insegnamenti attribuiti al Buddha, una serie di regole monastiche e di spiegazioni dottrinali di origine più tarda.
La comunità buddista non rimase a lungo unita. La libertà di indagine e di interpretazione, favorita dalla mancanza di una chiesa ufficiale, condusse presto alla formazione di diversi indirizzi e correnti, che peò, malgrado le differenze e le polemiche dottrinali, si mantennero in contatto fra loro, ed avvenne persino che monaci di sette diverse vivessero in armonia negli stessi conventi.
Tralasciando gli sviluppi più propriamente religiosi ed esoterici del buddismo — come il « veicolo adamantino » ed il tantrismo che, diffondendosi soprattutto fra il v ed il x secolo d.C., associarono al buddismo metodi magici e innumerevoli divinità grandi e piccole __ ci occuperemo qui dei due più importanti indirizzi filosofici del buddismo indiano: il « piccolo veicolo », che meglio ha conservato l'aspetto ascetico e dottrinale del primo buddismo ed è oggi continuato in Indocina, a Ceylon ed in Birmania, ed il « grande veicolo », in cui invece prevalsero tendenze mistico-metafisiche, e vive ancor oggi nel buddismo cinese e giapponese.
A differenza sia della speculazione vedica che del giainismo, il buddismo già nella sua formulazione più antica (il « piccolo veicolo » o hinayana) non ammetteva l'esistenza di un'anima. Oltre alla corporeità, alla percezione e alla sensazione, l'individuo avrebbe un principio cosciente (viinana), nucleo centrale della personalità e della responsabilità umana.
Per il suo atteggiamento nettamente antimetafisico e fortemente razionalistico, la filosofia buddista non elaborò, in questa prima fase, una particolare concezione del mondo, ma si concentrò sul problema della liberazione dal samsara, la ruota della nascita e della morte, cui l'uomo è legato per la legge del karman. Ogni pensiero, per il buddismo, racchiude in sé l'opera passata e si proietta nel pensiero futuro, in una concatenazione perenne che produce i1 dolore.
La liberazione apre l'accesso al nirvana che, concepito come trascendente il mondo empirico, rappresenta nel primo buddismo un concetto limite, non definibile per mezzo del linguaggio, e che solo dai pensatori posteriori verrà interpretato come una vera e propria realtà ontologica.
L'eliminazione del karman, necessaria per raggiungere la liberazione, si ottiene attraverso la disciplina morale e la conoscenza del complesso nesso causale, del processo cioè che, iniziatosi con l'ignoranza -- senza alcun intervento divino e soltanto per responsabilità nostra -- porta al dolore, alla vecchiaia ed alla morte.
L'ignoranza (avidya) sembra avere nel pensiero buddista la funzione che nella concezione ebraico-cristiana ha il peccato: senonché mentre quest'ultimo è errore etico, l'avidya è errore intellettuale. L'ignoranza riguarda le quattro « nobili verità » proclamate dal Buddha: la realtà del mondo, transeunte ed in perpetua trasformazione, è il dolore; l'origine del dolore è il desiderio o attaccamento egoistico alla vita; la liberazione dal dolore è possibile mediante l'estinzione di tale desiderio, cioè il nirvana; esiste una via che conduce a tale estinzione.
Come già abbiamo accennato, per il raggiungimento della liberazione riveste una grande importanza la disciplina morale, che il « piccolo veicolo » ha elaborato e regolato in un ottuplice sentiero: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sforzo, retta via, retta consapevolezza e retta meditazione. Sono questi due ultimi in particolare i precetti fondamentali della ascesi buddistica, codificata nella severa regola monastica.
Verso il principio dell'era volgare il buddismo subì un processo di vasto rinnovamento: vennero composti una serie di nuovi testi, di cui alcuni presentati come rivelazioni del Buddha che non è più concepito come personalità storica, ma come incarnazione della verità e si formò quella nuova corrente del buddismo che suol venire chiamata « grande veicolo » (mahayana).
L'ideale di questa nuova forma di buddismo non è più quello statico dell'asceta che pone nel nirvana il proprio fine individuale, ma quello dinamico del bodhisattva, « colui la cui essenza è illuminazione », che, giunto sulle soglie del nirvana, rimanda la propria liberazione individuale per aiutare i non-illuminati, in uno slancio di carità che giustifica il nome di « grande veicolo ».
Una nuova importanza assume, accanto alla conoscenza, la pratica della compassione atta a realizzare al di là della salvezza individuale, la salvezza di tutti, perché il nirvana non è tale se non comprende l'intera umanità. La virtù maggiore del bodhisattva è l'« abilità nei mezzi », cioè l'abilità di portare all'alto, con parole ed azioni adatte ai loro bisogni, le potenzialità spirituali dei vari individui, che possono tutti divenire dei Buddha.
Il principale innovamento filosofico del « grande veicolo » è l'elaborazione di una metafisica coerente, per opera soprattutto della scuola madhyamika e della scuola yogacara.
Fondatore della scuola madhyamika fu Nagarjuna, una delle maggiori personalità del pensiero indiano, e non solo di quello buddista, vissuto nell'india nordoccidentale verso la metà del II secolo d.C. Il suo pensiero è esposto in forma sintetica nei 400 versi del famoso Madhyamika-karika, ma a lui sono attribuite altre numerose opere, alcune delle quali conservateci solo nella traduzione cinese.
Con una serie di serrate argomentazioni logiche, Nagarjuna dimostra che del mondo empirico non si può predicare nulla, e che tutti i concetti (ad esempio il concetto di tempo) sono contraddittori: tutte le cose non hanno una natura propria, ma sono reciprocamente condizionate, ed il loro essere individuale è solo apparente, sì che l'intero mondo del molteplice altro non è che una costruzione dell'immaginazione umana. Anche il « vuoto » in cui le cose si identificano oltre il velo delle apparenze non è un'entità reale, ma rappresenta solo l'eliminazione di tutte le illusioni provocate dalle opinioni: è l'inesprimibile, al di là di ogni designazione logica o concettuale, dell'essere e del non essere, dell'affermazione e della negazione.
Conseguenza gnoseologica di tale monismo metafisico è la teoria delle due verità: quella superiore della realtà e quella convenzionale delle apparenze.
Queste ultime, pur prive di realtà propria, possono servire per indicare metaforicamente la realtà, e sono quindi utili al fine della liberazione.
La liberazione si raggiunge con la conoscenza che tutte le cose si riducono ad un unico principio, il « vuoto »: al di là di ogni dualità l'assoluto non ci apparirà allora come esterno rispetto ai fenomeni, ma come identico al relativo, ed il nirvana ed il samsara saranno la stessa cosa.
Un'interpretazione idealistica della realtà, in opposizione al « vuoto » di Nagarjuna, dette l'altra grande scuola filosofica del buddismo del « grande veicolo », lo yogacara. Mitico fondatore della scuola fu Maytreya, vissuto forse nel IV secolo d.C.; i suoi più illustri rappresentanti furono però i fratelli Asanga e Vasubandhu, vissuti all'inizio del v secolo.
Secondo la dottrina yogacara tutto quello che esiste non è altro che coscienza, vijnana; perciò questa scuola venne anche detta vijnanavada. Gli oggetti non esistono se non in relazione con la coscienza conoscente, che è realtà assoluta, contenuta solo in se stessa e non dipendente da alcun oggetto esterno. La realtà illusoria nasce da questa realtà assoluta e incondizionata: col portare in atto la sua potenzialità, la coscienza - come dimostrano ad esempio i sogni - crea da se stessa il proprio contenuto.
Quando riusciamo a diventare consapevoli che tutto quanto esiste non è altro che coscienza, e diventiamo perciò capaci di un pensiero che sia « atto del pensiero puro », cioè della coscienza che ha per oggetto la coscienza stessa, allora il samsara ed il dolore ci appaiono come nirvana, e conseguiamo la salvezza.
L'importanza della scuola yogacara, più ancora che nella sua interpretazione metafisica della realtà, sta forse nel potente impulso elaborativo che diede alla logica indiana. Cominciata appunto con Vasubandhu, la logica buddista trovò la sua più alta espressione nelle opere di Dinnaga e di Dharmakirti, vissuti rispettivamente nel VI e VII secolo.
Secondo i logici buddisti è possibile distinguere la conoscenza discorsiva dalla conoscenza sensibile, l'inferenza dalla percezione. Nel primo momento del conoscere, momento che precede il linguaggio, si percepisce il particolare nella sua concreta individualità; nel secondo alla intuizione diretta dell'oggetto si sostituisce l'immagine discorsiva e la parola. « La sensazione è priva di costruzioni mentali. Essa è un dato immediato della propria coscienza. Le costruzioni mentali, come ognuno può sperimentare in se stesso, si basano sulla parola. »
Conosciuto prima in se stesso nella percezione sensibile, l'oggetto particolare viene poi conosciuto dall'intelletto in forme sue proprie, diverse dall'oggetto stesso e che non hanno alcuna esistenza in sé: gli universali, le parole. Il pensiero non ha per oggetto le cose, ma le parole, e non ha quindi un valore positivo, ma negativo. Pur tuttavia esso può portarci empiricamente alla conoscenza vera: « Di due raggi, uno dei quali proviene da un gioiello e l'altro da una lampada,nessuno è il gioiello; ma scambiando il primo per il gioiello, si può pervenire a quest'ultimo, e non invece se ci si affida all'altro.
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