PIERO DELLA FRANCESCA-RITRATTO DEI DUCHI DI URBINO-GALLERIA UFFIZI
FIRENZE
Il Doppio ritratto dei duchi di Urbino è un dittico, olio su tavola (47×33 cm ciascun pannello), con i ritratti dei coniugi Federico da Montefeltro e Battista Sforza, opera di Piero della Francesca databile al 1465-1472 circa.
Il doppio ritratto, tra le effigi più celebri del Rinascimento italiano, venne dipinto a Urbino in un momento imprecisato: pare che il ritratto di Federico fosse già completato nel 1465 (come farebbe pensare l'assenza di insegne onorifiche), mentre quello di Battista Sforza sia postumo (come farebbe intendere l'iscrizione, al passato), quindi databile a dopo il 1472, anno della sua morte avvenuta per probabile polmonite acuta a soli 27 anni. Inoltre l'iscrizione di Federico farebbe pensare a un'aspirazione ad assumere la dignità ducale, quindi anteriore all'ottenimento di tale titolo nel 1474. Forse il ritratto di Federico venne effettivamente composto prima e solo dopo la morte della moglie corredato dell'altra tavola: a riprova di ciò c'è una testimonianza del 1466 in cui un carmelitano veronese, Ludovico Ferabò, parla di una "imago eiusdem Principis a Petro Burgensis picta" (immagine di tale Principe dipinta da Piero di Borgo San Sepolcro). La datazione del primo ritratto sarebbe quindi vicina alla Pala di Brera e potrebbe essere stata eseguita come opere propedeutica al ritratto nell'opera maggiore. Questo sarebbe un'ulteriore affinità con il ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta (con un'analoga effigie di profilo, però su sfondo nero invece che con il paesaggio) del 1451 circa, dipinto in concomitanza con l'affresco di San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta per il Tempio Malatestiano.
Già esposto nella sala delle Udienze di palazzo Ducale di Urbino, entrò nelle collezioni dei Della Rovere e, con l'estinzione della casata, pervennero a Firenze nel 1631 con la dote di Vittoria della Rovere, ultima discendente, maritata a Ferdinando II de' Medici. Dalle collezioni granducali confluirono poi naturalmente alle Regie Gallerie (1773), divenute gli Uffizi. A quel tempo si era completamente persa la fama del dipinto, tanto che veniva ormai indicato come ritratto di Petrarca e Laura.
Le radiografie hanno accertato che Piero dipinse i personaggi dei trionfi nudi, tramite spolvero, che vennero poi rivestiti solo in una seconda fase. L'uso della tecnica a olio è innovativo per il pittore, sebbene in opere precedenti sia usata una tecnica mista, olio e tempera. Ciò può essere derivato dal contatto con i pittori fiamminghi della corte urbinate, quali Giusto di Gand.
I due dipinti sono oggi separati, ma anticamente collegati da un un'unica cornice. La pittura su entrambe le parti farebbe infatti pensare a un oggetto privato, piuttosto che a un ritratto pubblico da appendere, e magari fu richiesto da Federico stesso come ricordo dell'amatissima moglie, come sembra suggerire anche un certo tono malinconico dell'opera.
I sovrani sono raffigurati di profilo, come nelle medaglie, in un'immobilità solenne, sospesi in una luce chiarissima davanti a un lontano e profondo paesaggio a perdita d'occhio, che accentua le figure in primo piano. L'infinitamente lontano e l'infinitamente vicino (rappresentato dalla cura dei particolari nei ritratti) sono mirabilmente fusi, dando origine a una realtà superiore e ordinata, dominata da leggi matematiche che fanno apparire gli esseri umani non più come mortali ma come idealmente eterni, grazie alla loro superiorità morale. Nel paesaggio la luce è calda, tanto da arrossare le curve dei colli.
Le effigi si ispirano ai cammei tardo-imperiali e ai dittici consolari in avorio: non a caso la doppia iscrizione inizia con "Claurs" e finisce con "Virorum", rievocando le tipiche iscrizioni del "vir clarissimus" romano. La luce è unica e proviene dalle spalle di Federico.
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