PINOCCHIO SVELATO
Carlo Lorenzini, alias Collodi, giornalista, educatore, mazziniano,
nasce nel 1826 (FIRENZE) e muore nel 1890 (FIRENZE). Sebbene
l'appartenenza di Collodi alla massoneria non sia provata da nessun
documento ufficiale, egli è annoverato tra i massoni celebri dalla
pubblicistica filo-massonica che lo considera tale puntando su indizi
quali la sua attività di giornalista (la fondazione del periodico
liberale “Il Lampione” nel 1848, che deve “far lume
a chi brancola nelle tenebre”), e quella politica (la vicinanza
ai mazziniani e la partecipazione alle prime due guerre di indipendenza),
ma soprattutto per la grande quantità di riferimenti iniziatici nella sua
più celebre opera "Le avventure di Pinocchio". Alla luce
di questi elementi quindi è fondato ritenere che non vi sia prova certa
che Collodi fosse un massone, ma egli era sicuramente un fine essoterista e
conoscitore di alcuni dei rituali e dei simboli che sono utilizzati anche
dalla massoneria.
I veri riferimenti iniziatici si
scoprono leggendo attentamente fra gli interstizi del racconto fiabesco, e
si scopre subito una favola nella favola, una favola diversa dove
il "burattino" deve apparire con tutti i suoi difetti, dove
è costretto a superare tutti gli ostacoli che gli si presentano per
diventare "Uomo".
Dal legno-materia prima, allorché è lavorato a regola d'arte,
emerge Pinocchio, burattino sì, ma che deve farsi uomo, e che
pertanto contiene già la figura umana inserita nel suo corpo di legno.
Il burattino percorre dunque un percorso iniziatico che lo deve condurre
ad una profonda trasformazione di tutti i vari piani del suo essere.
Trasformazione resa possibile con il morire come profano e
rinascere quale iniziato.
In latino pinocolus significa "pezzetto di pino". Per
un pagano è l'albero sempreverde che sfida la morte
invernale. Lucignolo è un Lucifero miserello, a misura di puer, cioè
di pre-iniziato, e il Gatto e la Volpe sono Legbà e Shù, grandi
personaggi della mitologia africana che si ritrovano anche nel Vudù.
Secondo Zolla probabilmente Collodi conosceva questa mitologia.
E' interessante anche soffermarsi sul 4, numero che è il
più ricorrente. E' per 4 soldi che vende l'abbecedario, in sostanza vende
ciò che simboleggia lo strumento della conoscenza. Quattro sono gli
elementi, ed è il numero che è capace di indicarci la spazialità
terrestre, quindi è simbolo della materia.
Il 10 è simbolo della realizzazione spirituale (per Pitagora era
il numero perfetto su cui i suoi allievi dovevano giurare) e non è a caso
che moltiplicando questo per il 4 si ha 40, e quaranta sono i soldi
che Pinocchio regala alla Fata che poi saranno trasformati in 40
zecchini d'oro.
La Fata Turchina è dunque una fata alchemica che ha fatto
uno zecchino d'ogni Povero ma amoroso soldo: non la ricchezza indica
il tesoro, ma il conseguimento per trasformazione. Il numero 40,
numero arcaico, indica come si è detto il numero perfetto, insomma la
conclusione del Viaggio.
Ed ora analizziamo tutta la
struttura del libro, questa risulta imperniata su tre componenti fondamentali:
la LIBERTA’, perché Pinocchio è
un essere libero che ama la libertà; l’EGUAGLIANZA sia perché l’unica
aspirazione di Pinocchio è di essere simile agli altri sia perché nessun
personaggio prevale sull’altro né per importanza, né per rango o ceto sociale;
la FRATERNITA’, perché questo è il sentimento principale per cui agiscono i
personaggi della storia nelle più disparate situazioni.
Che cos’è quindi “Le avventure di Pinocchio”?
Apriamo il libro ed entriamo in un Tempio Massonico, un Tempio dove sta per
svolgersi la cerimonia più importante della vita massonica, cioè
un’Iniziazione, un’iniziazione completa, cioè nei suoi tre gradi. E chi sta per
essere iniziato? Pinocchio forse? No! …ma procediamo con ordine.
“C’era una volta…” – “un re….” – “no…,
un pezzo di legno!”, o forse sarebbe meglio dire “all’inizio c’è un
Maestro”, Mastro Antonio, detto Maestro Ciliegia che potrebbe essere benissimo
il Maestro Venerabile di questa ipotetica Loggia. Mastro Antonio è un bravo
falegname che si trova tra le mani un pezzo di legno; se fosse stato uno
scalpellino avrebbe avuto certamente a che fare con una pietra. Fatto sta che
da questa “pietra” il nostro Maestro vuole ricavarne qualcosa di buono, anzi di
utile come una zampa di tavolino: e così –dice il Collodi- prese
un’ascia arrotata per cominciare a digrossarlo. Ma il bravo Maestro
falegname si accorge ben presto che quel pezzo di legno, quasi informe, un
semplice pezzo da catasta, non un legno di lusso, ha però in sé nascosta una
qualità eccezionale: è vivo; dovrà quindi servire a qualcosa di più importante
che non diventare una zampa da tavolino o finire addirittura nel focolare.
“In quel punto fu bussato alla porta” – “Si bussa da
profano alla Porta del Tempio”. Ed ecco entrare il nostro bussante, Geppetto.
Geppetto è un vecchietto
bizzosissimo, facile a diventare subito una bestia e non c’è più verso di
tenerlo, non è che la tolleranza sia il suo forte ma fondamentalmente è un
brav’uomo. A chi meglio di lui potrebbe il venerabile maestro Antonio affidare
l’incarico di digrossare quel pezzo di legno e farne qualcosa di buono? Ed è
così che Geppetto si porta il suo rozzo pezzo di legno, o se vogliamo la sua
pietra grezza, nella sua misera casa che guarda caso assomiglia molto ad un
<gabinetto di riflessione>, ove avverrà il primo viaggio quello di
terra…….…una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala, una seggiola
cattiva, un tavolino tutto rovinato, un fuoco acceso ma dipinto, come dipinta è
la pentola dell’acqua che bolle, come altrettanto dipinto è il fumo che essa
manda fuori.
Qui Geppetto compila il suo
Testamento: fabbricherò un burattino, lo voglio chiamar
Pinocchio, il nome gli porterà fortuna; ho conosciuto una famiglia di Pinocchi,
tutti se la passavano bene… il più ricco chiedeva l’elemosina. E,
trovato il nome al suo burattino, Geppetto comincia a lavorare, armato di
semplici arnesi e tanta volontà, in mezzo a tanti dubbi e a tante speranze; passando
attraverso varie difficoltà, riesce finalmente a digrossare il pezzo di legno e
a farne un burattino, un burattino perfetto nel suo essere burattino, ma pur
sempre un burattino. Nasce Pinocchio dunque, un burattino di sani costumi, ma
non del tutto formato, e suscettibile quindi di essere spesso traviato dai
richiami allettanti della vita profana. Da questo momento in poi Geppetto e la
sua creatura vivono quasi in simbiosi, l’artefice si identifica con la sua
opera, soffrono l’uno delle sofferenze dell’altro, gioiscono delle reciproche
speranze, affrontano le stesse traversie, sia pure in modi e luoghi diversi.
Nel capitolo VI°, mentre Geppetto è in prigione, Pinocchio si trova ad
affrontare un ventaccio freddo e strapazzone, una catinellata d’acqua ed infine
il fuoco che gli brucerà i piedi: aria, acqua, fuoco… può essere tutto questo
casuale?
Sgrossata la pietra grezza,
Geppetto è riuscito a passare dal primo al secondo grado: ha fatto
indubbiamente progressi ma è ancora lontano dalla perfezione a cui idealmente
aspirava; egli comunque non è più il tipo irascibile descritto nei primi
capitoli, così come il burattino abbandona progressivamente la sua mentalità di
rozzo pezzo di legno per assumere, almeno a sprazzi, larvati comportamenti
mentali umani. Con i piedi rifatti, dopo essere passato attraverso la prova del
fuoco, Pinocchio comincia a fare dei ragionamenti: “Vi prometto, babbo, che anderò a scuola, studierò e mi farò
onore… imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia”.
Come non cedere a simili prospettive? E così Geppetto pur di vedere la sua
opera realizzata, e lui stesso in essa, non esita un attimo a vendere la
vecchia casacca per comprare l’abbecedario, e da questo momento in poi tutto il
succo della vicenda sarà imperniato sulla scuola, sull’istruzione, sulla
maturazione del burattino fino alla completa trasformazione. Ma quante prove
ancora, e tutte imperniate sul trinomio aria-acqua-fuoco, dovrà egli
affrontare?!?! Rischia di essere bruciato nel barbecue di Mangiafuoco o di
essere bruciato dal falò acceso dagli assassini (Il Gatto e la Volpe), ondeggia
al vento impetuoso di tramontana impiccato alla Grande Quercia, si libra
nell’aria a cavalcioni di un colombo, si getta in mare per raggiungere il
babbo, sarà gettato in mare sotto le sembianze di ciuchino per essere
affogato. Queste prove, causa di qualche
malefatta dovuta alle tentazioni della vita profana, assumono una funzione
purificatrice ed infatti da ognuna di queste prove egli uscirà progressivamente
sempre più rafforzato e migliorato.
E la Fatina dai Capelli
Turchini? Possibile che di questo personaggio così importante ci siamo
dimenticati fin qui? No assolutamente, perché pur senza mai nominarla
direttamente essa è stata sempre presente; essa è l’anima della nostra
esposizione: essa è la personificazione della Massoneria, è l’espressione della Ragione:
i suoi interventi non sono ispirati né dalla fede, né dalla speranza né tanto
meno dalla carità. Essi sono improntati al massimo del Razionalismo, una
razionalismo esasperato nella sua semplicità (vedi cap. XXV°). Nella narrazione
la Fatina interviene per la prima volta quando, battendo tre colpi, dà il segno
per soccorrere Pinocchio appeso per il collo alla Grande Quercia: lo accoglie
nella sua casa luminosa e piena di delizie ma prima ha bisogno di tre dottori
che le confermino se egli è vivo o morto. Le diagnosi, sia pur positive nel
complesso, lasciano tuttavia adito a qualche perplessità per cui il burattino
deve prendere coscienza di che cosa vuol dire rimanere a vivere in quella casa:
Pinocchio ottiene lo zuccherino ma subito dopo deve ingerire la medicina amara
e di lì a poco la Fatina, raffigurata in questa prima apparizione come una
bambina, dirà a Pinocchio: “Tu
sarai il mio Fratellino…”: è tale la corrispondenza con il rituale
di iniziazione che non è pensabile che questo riferimento da parte del Collodi
sia inconsapevole e casuale.
La seconda volta che Pinocchio
incontra la Fatina, questa non è più bambina ma è diventata donna ed è a lei che
Pinocchio esprime per la prima volta il desiderio di divenire un bambino vero,
un uomo. La Fata gli premette che dovrà superare alcune prove e dovrà
soprattutto e prima di tutto andare a scuola ed imparare; Pinocchio promette,
giura e… spergiura. Effettivamente il comportamento del burattino sembra
intraprendere la strada giusta, tanto che un bel giorno la Fatina gli annuncia
che il giorno dopo egli diventerà un bambino in carne ed ossa: addirittura si
prepara la festa e si fanno gli inviti, ma ancora una volta il mondo profano
attrae fatalmente Pinocchio trasportandolo nel Paese de’ Balocchi. Dopo questa
paurosa esperienza avrà inizio la redenzione e Pinocchio rivedrà solo
indirettamente una terza volta la Fata dai Capelli Turchini ma nelle sembianze
di una capretta che lo assiste e cerca di aiutarlo mentre sta per essere
inghiottito dal pescecane, avviandosi così verso la sua catarsi definitiva.
Per Zolla Collodi rappresenterebbe Iside come capra, oltre
che come fata perchè Iside, nel mondo pagano, è la grande mediatrice,
rappresentante di tutto il mondo animale, o meglio dell'indistinzione tra
animale e umano.
Entrando nelle fauci del
terrificante pesce, Pinocchio inizia il passaggio al terzo grado, la morte e la
definitiva rinascita. “Pinocchio –scrive il Collodi- battè
un colpo così screanzato da restarne sbalordito per un quarto d’ora”.
Quando ritorna in sé si trova immerso in un buio così nero e profondo da
sembrare entrato in un calamaio pieno d’inchiostro. Immerso in questa oscurità
totale, con il terrore di essere “digerito” dal pesce, finalmente Pinocchio
vede una specie di chiarore, un lumicino, “forse
qualche compagno di sventura che aspetta anche lui di essere digerito…”,
“Voglio andare a trovarlo. Non
potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la
strada per fuggire?”. E così Pinocchio si mette a percorrere quella
strada indicata dal lumicino e, riporto testualmente, “più andava avanti, più il chiarore si faceva
rilucente e distinto”. Il burattino arriva finalmente alla fonte di
quella luce: è una candela accesa da Geppetto, raffigurato come un vecchiettino
tutto bianco in condizioni pietose. L’artefice e la sua opera sono di nuovo
insieme, uniti e pronti per vedere finalmente la luce che appare loro sotto
forma di un cielo stellato e un bellissimo lume di luna. Geppetto viene preso a
cavalluccio da Pinocchio e portato in salvo: l’artista torna alla vita per
tramite della sua opera.
Ora il burattino è pronto per
diventare uomo; la pietra grezza è stata completamente digrossata; manca
solamente l’ultimo passaggio, la levigatura. Pinocchio infatti comincia a
studiare e lavorare forte per suo padre e contemporaneamente manda i frutti
della sua fatica alla buona Fata che ha bisogno di lui anzi, per aiutarla, rinuncia
a comprarsi un vestito nuovo. E il momento è arrivato: una mattina Pinocchio
apre gli occhi e si accorge di non essere più un burattino di legno ma un
ragazzo; non è più in una capanna dalle pareti di paglia ma vede una
bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante;
è ricco perché i quaranta soldi mandati alla Fatina gli sono ritornati sotto
forma di quaranta zecchini d’oro: gli sono stati resi i metalli. Pinocchio
corre dal povero babbo nella stanza accanto e si trova davanti un Geppetto sano
e arzillo e di buon umore. E così il passaggio al Terzo Grado è compiuto,
l’iniziazione si è completata.
La scena si chiude nel Tempio
con il buon Geppetto che soddisfatto da una parte contempla Pinocchio divenuto
uomo, cioè la pietra ben squadrata e finalmente levigata, dall’altra osserva il
vecchio burattino di legno, appoggiato, rigirato, con le braccia ciondoloni e
le gambe incrocicchiate. In questo sta l’originalità del romanzo: Pinocchio non
ha subito una metamorfosi, non si è trasformato in “umano”: è nato invece un
nuovo essere ed il burattino è rimasto là quasi a testimoniare un messaggio di
continuità. E’ nell’ultima frase del romanzo, che il Collodi fa dire a
Pinocchio, che si racchiude e si concentra l’orgoglio di essere iniziato
Fratello Libero Muratore: “Com’ero
buffo, quando ero un burattino! E come ora son contento di essere diventato un
ragazzino perbene!…”.
LA GRANDE OPERA E’ COMPIUTA.
Chi ha orecchi per
intendere intenda………………
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