3-4 ottobre 1925
la notte di san bartolomeo
delle violenze perpetrate dai fascisti a firenze
Venuta meno la paura del bolscevismo, le squadre fasciste dovevano costruirsi un nemico nuovo, e lo individuarono nei massoni, o meglio negli esponenti del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, l’obbedienza massonica che dopo aver guardato con un certo favore al fascismo nascente aveva poi sposato una linea di decisa opposizione. L’altra istituzione liberomuratoria, la Gran Loggia d’Italia di Piazza del Gesù, era infatti schierata al fianco del duce e contava fra i suoi affiliati non pochi fascisti di primo piano: fra gli altri Italo Balbo e Roberto Farinacci, segretario nazionale del Pnf. Il bersaglio degli squadristi, in senso più lato, era l’antifascismo borghese e laico, quello degli intellettuali e dei professionisti, che proprio a Firenze aveva uno dei suoi centri più vitali. Era qui, non a caso, che nei mesi precedenti si era pubblicato il giornale clandestino «Non mollare», fra i cui redattori vi erano Ernesto Rossi e i fratelli Carlo e Nello Rosselli.
Dalle parole si passò subito ai fatti. Fin dalla sera del 26 settembre cominciarono le aggressioni e i pestaggi contro i massoni, o comunque contro individui sospettati di esserlo. Le violenze s’intensificarono nei giorni successivi fino a toccare il culmine nella notte fra il 3 e il 4 ottobre, quando le squadracce scatenarono una terribile rappresaglia per vendicare la morte di uno dei loro, Giovanni Luporini, rimasto ucciso, probabilmente da «fuoco amico», mentre capeggiava una spedizione contro il massone Napoleone Bandinelli. Nell’azione perse la vita Giovanni Becciolini, anch’egli massone, che era accorso in difesa di Bandinelli, suo vicino di casa. I fascisti lo finirono a bastonate e a colpi di revolver.
Gaetano Pilati (immagine tratta dal sito della Fondazione Turati)
Un altro gruppo, poco dopo mezzanotte, si recò a casa dell’avvocato Gustavo Consolo (o Console), pure lui massone, già denunciato da «Battaglie fasciste» come uno dei distributori del «Non mollare». Fu ammazzato a revolverate di fronte alla moglie e ai figli. Infine toccò all’ex deputato Gaetano Pilati, figura di spicco del socialismo fiorentino, anche lui impegnatosi con entusiasmo nella diffusione del periodico antifascista. Imprenditore edile, Pilati dal 1913 era presidente della Sms «Andrea Del Sarto» e dal 1921 segretario provinciale del Psi. Non valse a garantirgli il rispetto degli squadristi neppure il fatto di essere un mutilato di guerra. Ferito gravemente, morì dopo tre giorni di agonia all’Ospedale di S. Maria Nuova.
In quella stessa notte, poi ricordata come «la notte di San Bartolomeo», vennero assaltate le abitazioni di altri antifascisti. Alcuni si salvarono perché assenti, altri perché riuscirono a fuggire: ma le loro case vennero devastate. «Chi stava a Firenze in quei giorni – avrebbe scritto trent’anni dopo Gaetano Salvemini– attesta che le strade centrali delle città furono sgombrate a colpi di manganello; i caffè chiusi, i teatri invasi, le rappresentazioni sospese. Gli studi di tredici avvocati e di un ragioniere, una sartoria e sette botteghe furono messi a sacco nel centro di Firenze; i mobili gettati nelle strade e dati al fuoco: dalle colline intorno a Firenze si vedevano levarsi colonne di fumo. Questo a poca distanza dalla prefettura, dalla questura e dal comando dei carabinieri. I tutori dell’ordine brillarono sempre per la loro assenza».
Di quelle tragiche giornate, che Vasco Pratolini avrebbe rievocato in alcune delle pagine più belle delle sue Cronache di poveri amanti, restò una traccia indelebile, scolpita nella memoria collettiva della città. Ma l’eco delle violenze travalicò i confini cittadini e regionali, ed ebbe importanti ripercussioni a livello politico nazionale. Mussolini, infuriato, convocò in fretta il Gran Consiglio, che si riunì la sera del 5 ottobre. Per poco, disse, non si era fatto di Pilati «un secondo Matteotti», per giunta sotto gli occhi di migliaia di inglesi e americani, la folta colonia straniera che popolava Firenze. Per il regime, che specie di fronte all’opinione pubblica internazionale intendeva adesso presentarsi con il suo volto più moderato, il danno era enorme. La reazione fu immediata: sui fatti di Firenze partirono tre inchieste e nel giro di pochi giorni prefetto e questore vennero rimossi. Italo Balbo, spedito dal partito a rimettere ordine nel fascio fiorentino epurandolo degli elementi più estremisti, esaurì il suo compito alla fine di ottobre: 51 fascisti furono espulsi e alla guida della federazione provinciale e del fascio cittadino vennero collocati esponenti dell’ala moderata di estrazione liberale. Tullio Tamburini, l’uomo forte del fascio locale, il principale ispiratore e artefice dell’ondata di violenze, fu allontanato da Firenze e inviato in Libia.
Quando tuttavia si trattò di individuare e condannare i responsabili delle aggressioni e degli omicidi, la giustizia fascista si mostrò assai meno inflessibile. Dei dieci inquisiti per l’assassinio di Becciolini, otto furono assolti per mancanza di prove e solo due condannati: ma non per omicidio, bensì per «ferite gravi». Becciolini, commentò sarcastico Salvemini, «non era stato ucciso, ma ferito gravemente; poi era morto di suo». I quattro fascisti rinviati a giudizio per l’assassinio di Pilati e i sette per l’assassinio di Consolo furono tutti assolti. A nulla servì la coraggiosa testimonianza della vedova di Pilati, Amedea Landi, che nonostante le intimidazioni si era presentata in tribunale e aveva riconosciuto gli assassini. Alla sua memoria nel 1992 è stata assegnata una medaglia d’oro al valor civile.